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al testo di Rodolfo Vettorello
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ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
Silloge di 60 poesie
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
Aride stelle in cielo; geometrie senza emozione, senza luce, senza una semplice nota dissonante, una parvenza minima che parli della bellezza dell’imperfezione. Questo universo immobile ci incanta e l’ordine perfetto ci seduce ma vivere è tutt’altro. E’ il fango che produce le fioriture magiche del cuore. Si vive male, a volte, ma si vive malgrado la follia degli assoluti. Si spera il sole e intanto ci si appaga del freddo di un inverno senza luce. Il vento cresce e porta neve all’uscio delle case, risale le colline addormentate nell’infinito sonno senza luna. Come in letargo, la natura tace e un tempo impercettibile trascorre sull’orologio, al muro di cucina. Non farei cambio della mia fortuna di vivere una vita irrazionale con l’equilibrio inutile dei saggi. La geometria perfetta dei solstizi genera mostri. Solo il cuore, la sua tachicardia disordinata, dà il giusto ritmo al vivere una vita di un’unica certissima nozione: la meraviglia dell’imperfezione.
1
L’INCAPACITA’ DELLA PAROLA
Logora il cuore quest’incapacità della parola a dire l’indicibile, a tentare, solo a tentare almeno di cogliere in un verso l’incantesimo di ciò che accade, a volte, in un istante e che sappiamo nessuno al mondo potrà più rifare. E fugge via di lato e non sapremo mai come raggiungere il lampo colorato tra le foglie, il sogno d’aria, del sole che traluce tra le case in questo pomeriggio di città. Nessun istante è uguale a un altro e quando il cuore è rassegnato al suo destino opaco, qualcosa d’impossibile a ripetersi, all’improvviso accade. Tu mi sorridi da una lontananza e il tuo sorriso emerge quasi come da una nuvola bianca, una colomba. Come quel raggio pallido di sole che traluce tra le foglie in questo inverno freddo di città. Ed è così che per un giorno ancora non si muore.
2
FOTOROMANZO
Tutto pareva svaporato, al tempo e tu svanita, come alla memoria, la pallida parola che fu detta l’attimo prima di finire. Fanno come le foglie quando arriva il vento le tende alla finestra della stanza. Sembravi, dentro l’arco della porta, quasi la forma della lontananza. Spargeva il lume, come fa la luna, un misero chiarore, quasi bianco. In un istante la figura incerta, come d’incanto, si è dissolta in nulla. Siamo fantasmi, corpi inconsistenti, monadi sperse della stessa storia, siamo gli avanzi dello stesso pranzo o solamente come bolle d’aria. Siamo le frasi, chiuse in un fumetto, di personaggi da fotoromanzo.
3
E VICEVERSA
Io sono ciò che penso e viceversa. Che questo corpo sia cosa concreta o sia semplicemente il mio pensarlo a dargli vita, a farlo esistere davvero e sia così per ogni sentimento, per il piacere d’una musica che m’entra fino al profondo, chi potrà dirlo mai, chi potrà dirlo. E quella tua bellezza che mi seduce e mi fa credere che esisto. Non ho certezze ormai, non so più niente di quello che sia vero o che si inventi la mia mente contorta e delirante. Ti tocco con le mani e mentre avverto, sotto le dita, la tua pelle liscia, ho il dubbio che i miei sensi mi tradiscano e che tu esista solo se ti penso. Mi perdo in un delirio in cui capisco di essere null’altro che il pensiero di un altro che mi pensa. E viceversa.
4
LE POSSIBILI INTESE
Impiego il tempo a ricercare intese, complesse ed impossibili, alle volte e metto in campo tutta la pazienza per ricercare un punto di contatto. Mi snervo e mi esaurisco nello sforzo di dirti, senza urtarti, ciò che penso. Le mie parole cadono nel vuoto perché non so trovare l’argomento che possa condividere con te. Tu sei testarda e irremovibile e mi pento del mio tentare approcci inutilmente. Finisco col pensare che non possa esistere una cosa che ci unisca. Porto pazienza un attimo, poi esco ad incontrare il mare che conosco. Oggi è infuriato e schiuma alla battigia come un cavallo che abbia corso a lungo. Iroso ed irascibile mi sembra, almeno in apparenza ma se socchiudo gli occhi e sto in ascolto mi rendo conto che mi acquieta dentro il suo respiro fragoroso e lento.
5
EPANALESSI
Il cerchio che si chiude. L’inizio che riparte dalla fine, come nel cane il muso con la coda. Io conoscevo un tempo le parole, non tanto quelle che si imparano sui libri ma ciò che corrisponde al fiato e al cuore. Parole come cellule viventi, cose di carne e sangue ed escrementi, messaggio esistenziale preesistente a quel che sono e al mio concepimento. Parole intense e magiche che il varco nella vita ci preclude. Parole che si scordano esistendo, come il male del nascere e il terrore del viaggio nel canale vaginale. Il necessario oblio della paura è come ciò che accade alle parole. Mi illudo a volte, per via di qualche sprazzo di memoria e luce dentro un buio prenatale, che tutto torni al punto originale. Epanalessi, in fondo come dire l’inizio che riparte dalla fine. Le troverò cercando le parole per chiudere quel cerchio che non chiude.
6
LA TRISTE ALLEGRIA DI ALBINONI
Ho frenate allegrie, come adesso che mi sento distante da me, come un cielo in tempesta su un paese soltanto intravisto nella nebbia di un sogno. Una nube sinistra ora incombe sul villaggio alla cima di un colle, prati verdi in salita sulla costa di un nastro di strada, una quiete perfetta che esplode in bagliori di luce improvvisa. Allegria di naufragi nel sogno di qualcosa di inquieto e perverso, allegria di non essere e stare di lontano a guardare. Ho frenate allegrie del passaggio di una nave nei mari pacati della luna, le notti d’estate. Ho frenate allegrie d’abbandoni a una musica dolce d’orchestra sulle molli lagune.
Sto pensando alla triste allegria di Albinoni.
7
UN’OMBRA CHE MI SEGUA
La nebbia fuori ha soffocato il mondo. Dalla finestra aperta sui cortili osservo il poco cielo che traspare come una scena dietro ad un velario. Antenne di tv come fantasmi, comignoli che fumano di bianco. Un mondo sofferente si addormenta in questa luce pallida che pare un mantello pietoso che ricopra una città che muore. Così perso, mi lascio andare al sogno ricorrente di andare via di qui, verso altri lidi dove non muoia il sole nei tramonti, dove la luna transiti sui colli tutte le notti, luminosa e immensa. Ormai non so resistere all’affanno di questa nebbia, fumo di un incendio che ottunde la mia mente e mi confonde e mi fa fare cose senza senso per rapinarmi il tempo che mi resta. Voglio cercare il sole dove c’è e voglio avere un’ombra che mi segua per farmi compagnia, sola certezza mia che sono vivo, esisto e lascio un segno.
8
L’INSIGNIFICANZA
Andare via da qui, come d’autunno la nube spinta al filo d’orizzonte da un alito di vento mentre il giorno apre le porte a un brivido di luna. Pallida e assorta lacera l’assurdo precipitare lento nella notte. Vorrei partire come l’aeroplano che taglia il cielo col suo volo sghembo. Vorrei lasciare il nulla alle mie spalle e nessun segno del mio passo incerto.
E’ l’insignificanza il mio messaggio, l’inesistenza il ruolo che mi tocca. Farò di tutto, come ho sempre fatto, perché mi si dimentichi al più presto. Voglio andar via in un attimo e sparire come la nube ch’è trascorsa adesso. Rimarrà il vento e il chiaro della luna e correranno il cielo per l’eterno. La nube sparirà come sparisce l’aria nell’aria e il giorno nella luce.
9
FLUSSO DI COSCIENZA
Rifluisce dal mare alla sorgente il fiume dei ricordi e la corrente si fa violenta, a tratti. Un uomo grande che respira fumo esala dalle nari un’ira sorda. Un cane ringhia alla catena breve. un altro corre libero sul prato.
Ho già finito. Non c’è spazio alcuno per spiegazioni ai miei trasalimenti. Il poco di memoria mi consegna soltanto stralci di realtà diverse, sprazzi di luce dentro un buio pesto. Non so trovare alcuna spiegazione ai miei processi onirici e mi lascio portare via dal flusso di coscienza. Non c’è nessuna scala di valori tra tutto ciò che affiora lentamente. Disordine mentale, confusione e non si sceglie un metodo speciale di catalogazione. In testa allo scaffale un’etichetta e ad ogni mensola soltanto un nome. Non mi rimane più che questo poco, un ridottissimo elenco di parole e a ognuna il suo colore per evocare l’ultima emozione.
10
COME IL SASSO SULL’ACQUA
Se mi affaccio alla soglia del vento, da quell’albero spoglio si stacca anche l’ultima foglia. Brucia l’aria di una polvere lieve di neve. Verso sera, come un’onda alla riva si placa la tempesta che ha smosso i pensieri. Solo ieri era quiete e la pace che torna è più dolce di tutte le attese. Da uno scoglio lancio sassi nel mare; ho cercato i più piatti e sottili che rimbalzino a lungo sull’acqua. Io li seguo con gli occhi ed imparo a ripetere il gesto perché duri più a lungo ogni volta. Ogni cosa che pesa, il mio corpo di pietra, si solleva alle volte e galleggia per un salto ed un altro e alla fine precipita a fondo, come il sasso. E’ un destino che incombe questo corpo che sceglie la voragine blu che lo attende mentre dentro ribolle la voglia di restare sospesi, rimbalzando ogni volta più a lungo come il sasso sull’acqua.
11
CIELITUDINE
Rubo a Zanzotto una parola sola: Cielitudine e poco dopo parto per l’ignoto. Cielitudine come solitudine e come nostalgia di cieli vuoti o come assurdo ed algido colore di perle di cristallo dentro il sole. Cielitudine, cielo di colline, di boschi e di dirupi sulle valli, curve di strade, tracce di ferite che salgono al San Boldo, come scale. Soligo dorme sonni millenari, Rèvine piange lacrime di lago, San Pietro di Feletto sul crinale sorride del sorriso delle vigne. Cielitudine vasta come un mare, latitudine, punto cardinale, quarantacinque gradi, a metà strada tra l’equatore e il perno del ruotare. Cielitudine chiude la misura d’un infinito tutto da esplorare. Socchiudo gli occhi e dico: cielo e vedo una cupola azzurra e chiuso dentro un orizzonte di montagne care. Ridico cielitudine e mi siedo per farmi seppellire da questa assurda immensità di cielo.
12
NESSUN SEGNO, NIENTE
La strana idea che abbiamo di ritrovarci un giorno in un mondo diverso, un aldilà che non sappiamo bene dove esista, ci insegue dalla nascita, da sempre. E’ un’esigenza nostra insopprimibile di alimentare, in fondo, la speranza che tutto non finisca, come pare. Ci piace immaginare un paradiso nostro, un luogo dove si possa ritrovarsi un giorno insieme. Ci sembra intollerabile il pensiero che tutto si esaurisca in questo viaggio e confidiamo in vite differenti, in altri altrove. Eppure siamo, come il fiore e il cane e l’ape e la farfalla e il calabrone, siamo materia e carne e pulsazioni. La nostra fantasia, l’anima intera vive di fede, d’ansia e di speranza. Un infinito orgoglio si figura che all’uomo spetti un’altra dimensione, un mondo differente dove vadano i morti che ci sono stati cari. Io non vorrei per me nessun altrove, mi basterà la vita che ho vissuto. Io sono come il cane che mi ha amato, il passero trovato in un cespuglio. Io sono come il fiore sul balcone che vive il tempo che gli è stato dato. Vorrei, per il mio giorno di commiato, potermi cancellare dal registro, vorrei poter morire integralmente e non lasciare tracce, nessun segno, niente.
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IL PRIMO TRENO
Il primo treno passerà tra poco e la luce velata del mattino andrà crescendo come in un acquario. La bianca luna svanirà nel cielo. Lucifero é ormai quasi evanescente e tante stelle sono impallidite. Tutto é sospeso come in un'attesa e l'aria tace ed il silenzio é greve.
Il primo treno passerà tra poco, soltanto i vecchi sono già per strada.
Dormivo fino a tardi nel mio lettino e poi nel letto grande e non sapevo ancora della luce velata e delle attese. Occorrerà una vita per scoprire che le speranze moriranno all'alba. Allora sarà inutile aspettare il triste primo treno del mattino che le trasporta verso il mondo d'ombre.
Il primo treno passerà tra poco. Soltanto i vecchi sono già per strada.
14
A MIA INSAPUTA
La temo così tanto la mia morte che a volte spero si sia già conclusa la tragica avventura della vita e tutto sia finito e d’essere già morto a mia insaputa.
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NESSUNO CI APPARTIENE
E’ troppo complicato aprire il varco nella tua mente che mi sta osservando, entrarti dentro e sciogliere i legacci che ti tengono avvinta ai tuoi fantasmi.
Non mi appartiene tutto ciò che senti, ciò che hai provato e messo tra i ricordi. Nessuno ci appartiene veramente, noi monadi nel mondo degli specchi. Credevo di capirti ma da un vetro mi dava ascolto un altro me riflesso.
Di fuori piove e viene giù dal cielo un fiume di tristezza senza nome. Parole buone non so dire ancora per dare un senso al freddo che mi prende.
Domani spioverà, sarà sereno il cielo sopra noi che ci protegge, sarà più azzurro di un mattino a maggio. Non conta ch’io capisca il tuo disagio, conta di più la mano che ti tendo.
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COSI’ E’ MORIRE
Un cielo azzurro e fondo come un urlo e un aeroplano col suo volo sghembo. Una canzone dal jukebox d’un bar e bimbi che si inseguono per strada tra risa e gridi. Dentro un ospedale mia madre inizia il conto delle ore. Finisce il mondo, tutte le volte che qualcuno muore.
Si oscura il sole e i fiumi che traboccano travolgono città, s’apre la terra e inghiotte prati e boschi ed acquitrini. Tutto si ferma ed anche gli animali si annidano nel fondo dei rifugi.
Così nel cuore e non nella realtà.
Non ci sarà nessuno che si accorga se griderò che non vorrei morire. Il nostro pianto è nulla e si disperde dentro il frastuono delle cose vive: la musica lontana di un jukebox e i canti e i gridi dei bambini al sole.
Si muore soli e senza far rumore.
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SAREBBE PIU’ FACILE TUTTO
Sacrifico parte di me, piano piano, mi faccio ridotto ed esangue, mi strappo da solo brandelli di carne, sparisco di un poco ogni giorno, mi assento e mi annullo così che nessuno si accorga che esisto. Non occupo spazi e non reco fastidio, mi faccio da parte se occorre, mi anniento e mi oscuro. Divento così trasparente da farmi passare attraverso. Non ho consistenza, l’immagine mia nello specchio si incrina al mio sguardo e non riconosco me stesso nel pallido esangue fantasma riflesso. Ho speso il mio corpo pian piano, nel centro del vento che corre nel quale non conta il mio peso. Se tu non mi amassi sarebbe più facile tutto. Potrei liberarmi dall’ansia di esistere ancora per te, come sei, per l’arco di luce negli occhi che hai, per l’ultimo gesto che fai per tenermi sul limite assurdo di questa scogliera di abbracci. Se tu non mi amassi sarebbe più facile tutto.
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VORREI TU MI VEDESSI
Vorrei tu mi vedessi, come mi vedo nel mio sogno, a volte. Nel viaggio che mi porta alla sorgente, al tempo andato e a quella giovinezza che non mi ha amato. Il mio castello avito, il dolce mito io l’ho inventato con la mia pazienza. Mi sono dato scopi mai raggiunti e panorami d’isole segrete. Mi sono visto, per un tempo breve, come in un sogno quello che non sono. Capelli sciolti ed occhi sorridenti e tu che mi guardavi innamorata. Sono passato innanzi ad uno specchio e mi son visto, come sono adesso. Un viso molle ed occhi d’alabastro. Quello che resta, solamente un vecchio. Vorrei tu mi vedessi come mi vedo nel mio immaginario. Ci aspettano altre strade di silenzi ed altre piazze e viali di cipressi ed altri luoghi e mari e cieli azzurri ed altre vite, tante, dopo questa ed altri corpi e volti e specchi d’occhi ed altre giovinezze ed altre morti. Ci aspettano altre tavole imbandite ed altre case tiepide di fuochi. Se mi vedessi per un solo istante come mi vedo nel mio sogno, a volte.
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LA STRADA DEL NIENTE
E’ freddo stamane ma il sole che filtra tra gli alberi spogli ha strani barbagli di fiamma, qualcosa che allude ad un altro paesaggio. Ricordo Camaldoli e i boschi incantati di alberi fitti talmente da fare pensare alla notte e lame di luce tagliente ed avara che passa nell’alto e si perde nel rosso tappeto di foglie. La strada si fa rumorosa di luce e parla con voce suadente di un altro universo e di primavera imminente.
E’ solo la fine gennaio ma incombe un presagio, qualcosa mi illude che il freddo stia già per finire ed arrivi la festa di rane nei fossi e la crudeltà dei ditischi, i gridi di rondini a sera. La vita che corre al finire ha sprazzi improvvisi e aspetta dal giorno che viene un’altra promessa. Dimentica a volte che ognuno dei giorni che passa, magari splendente di luce, è un passo di più sulla strada che va verso il niente.
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ASPETTANDO LA SENTENZA
Come in attesa, stiamo qui seduti, nel modo di chi aspetta una sentenza. E’ solo questo quello che ci è dato, è vita che si spende come il fiato. Eppure, nonostante l’evidenza, è troppo bello stare qui aspettando che l’esistenza, un giorno dopo l’altro, aggiunga un altro istante ad ogni attesa.
Godersi primavere d’aria tersa come i ragazzi e l’ipotesi del volo per farci immaginare onnipotenti o come l’incertezza dei tramonti e i vecchi in una tenera demenza.
E’ bello stare qui che si galleggia al modo di libellule sul lago o come la cicala che dispensa un canto che perdura fino a sera. Tutto è già dato e niente più ci spetta; abbiamo avuto dosi di veleno e antidoti di gioia e d’abbandono, profondi precipizi per cadere ed ali nuove per tornare in volo.
Questo ci è dato e niente di diverso, il resto che ci spetta ci è negato.
Inutile aspettare la sentenza, tutto finisce come è cominciato.
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IL SOGNO DI VOLARE
Non so pensare ad altro che al perverso senso di vuoto che mi prende, a tratti, tutte le volte che mi lascio andare al sogno di volare. Librarmi in aria quasi senza peso, come una foglia a un alito di vento e come quella pagina di libro dalla panchina di un giardino al sole. Una poesia d’amore vola lieve come sorretta in cielo da parole vuote di senso ma ricolme invece d’un’emozione che trasporta il cuore là dove vuole. Mi ricordo un tempo in cui pensavo di potermi alzare, sopra le cose come levitando, per osservare il mondo da lontano, io, l’aeroplano nel mio sogno grande. Si piomba giù di colpo nella vita e si rimbalza a lungo come una palla o come un sasso piatto, sull’acqua troppo ferma di uno stagno, per poi finire a fondo. Non ho mai smesso credo di sognare e sono ancora qui che spero, a tratti, per un’ultima volta di volare.
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COME HO TROVATO LASCERO’
Non mi accomiato mai da nessun luogo e da nessuno e sempre, ovunque vada, accumulo ricchezze di paesaggi, visioni mozzafiato di vallate, immagini disperse e ritrovate di luoghi amati e di persone e cose. Amo ogni oggetto d’un amore folle che non è voglia inutile di avere e possedere ma soltanto il segno che so capire il fascino che hanno e la memoria che si chiude dentro e che si incrosta, a volte, su tutto ciò ch’è appartenuto ad altri. Ed amo immaginare i volti ignoti di chi mi ha preceduto, l’intera umanità che ha già vissuto ed abitato a lungo queste valli. Le loro mani strette sulle cose e gli occhi a carezzare i cieli azzurri, i monti immacolati sullo sfondo e tutto ciò che adesso vedo e tocco. Amo la vita che mi tocca in sorte e quella già trascorsa che ricordo e l’infinito numero di quelle di chi mi ha tramandato le sue cose, le immagini racchiuse in un quaderno, la pendola in salotto, le posate d’alpacca nel cassetto. Non mi accomiato mai da nessun luogo e da nessuno e tutto, come ho trovato lascerò ed intatto mi possa risorridere ogni volta il sole che, riflesso da una pozza, dopo la notte, come sempre torna.
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A ROGOREDO
Una tristezza di periferia, in questi casermoni disumani al limite di un mare di binari. Stazione Rogoredo di Milano una tristezza vaga d’abbandono, lo stesso odore acuto di città dei cessi desolati dei vagoni e identico il colore, il grigio delle case di ringhiera. Milano alla mattina è triste come il sogno che finisce quando la sveglia ha già suonato l’ora. Ho visto cose e so di storie strane che si ascoltano stando in compagnia. Scompartimenti colmi di sudore quando si torna a sera. Il treno fogna fa soste brevi in tutte le stazioni. Parole grasse e mani sul sedere delle ragazze che si fanno fare. Sono le otto ed è già buio fuori, domani all’alba il buio è come ieri. Le stesse case a ridosso dei binari, le stesse luci alle finestre, accese, le stesse storie, identiche le attese; domani sarà un giorno come ieri.
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FATA MORGANA (dedicata alla splendida Reggio Calabria)
E’ forse proprio qui che si consuma, davanti a questo mare che respira, su questa riva il senso della vita. Io l’ho cercato a lungo camminando lungo sentieri in boschi di silenzi, nelle radure dove si confonde il verdeggiare delle canne al vento e l’acqua quasi ferma dei canali. Io l’ho cercato nelle vie traverse delle città morenti e silenziose e lungo i marciapiedi delle donne che vendono l’amore. Io l’ho cercato ovunque immaginassi potessero nascondersi segreti. Ho rovistato tra le cianfrusaglie, negli angoli nascosti dei pensieri. Non una frase o una parola sola a dare un senso al vivere che vivo, inutile cercarlo dove credo. Non è mai là, nei luoghi dei pensieri, è in questo quadro che mi sta davanti, nel mare troppo azzurro dello Stretto dove si specchia una città lunare. Messina in lontananza è una lampara d’una catena innumere di lumi. E’ tutto qua l’arcano che si cerca, fuori di noi, lontano dai pensieri, nel grande gioco delle cose vere, in quello cui assistiamo, soltanto spettatori inebetiti di questa verità cui diamo il nome di questo lungomare d’illusioni. Fata Morgana, un sogno. Solo ieri.
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PORTA ROMANA
Com’era triste la città nell’alba e come, dai lampioni ancora accesi, spioveva sul bagnato delle strade una sottile polvere di luna. Finestre lampeggiavano di giallo sui viali della circonvallazione. Porta Romana bella di canzoni versava dai convogli pendolari turbe di gente ancora addormentata. Rigonfie quasi come stie di polli le filovie davanti alla stazione. Presto si sveglia e presto si addormenta questo ritaglio grigio di città- Di dietro a una parvenza disperata c’è gente che distilla con fatica da questa vita gocce di speranza. E’ sempre triste la città puttana ma nel chiarore pallido di luna una canzone sale dai binari, Porta Romana tu, Porta Romana
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MILANO VIA GHIBERTI
Milano, via Ghiberti. E’ già febbraio e il freddo della notte ha fatto bianchi di brina i tetti rossi delle case. Si accendono i camini e le caldaie che fumano di nebbia e di vapori. Il merlo ha già esplorato le grondaie e odori forti come fiati caldi raccontano di vita che riprende. Io sono come il fumo del comignolo che segna il cielo di volute gialle, spirali che si inseguono danzando inutilmente come tutto quello che non richiede alcuna spiegazione. Disegno fantasie nelle volute, edifico castelli inabitati, propongo strade che si perdono nel fondo di scene immaginarie. Poi mi sciolgo, nel grigio del mio cielo di città, a un alitare timido di vento tra queste case strette tra due strade. Milano, via Ghiberti, è già febbraio. Io sono come il fumo del comignolo che inventa per un cielo inospitale scenografie che durano un istante e poi si perdono come una voce che non ha parole.
27
LA CIUMBIA
Milano degli anni sessanta. Mi torna alla mente, se penso, la piccola piazza deserta e quella latrina di latta dipinta di verde. Pareti ricurve,merletti di ferro e un certo tettuccio ad ombrello di stile un po’ liberty o quasi. E’ il punto obbligato d’incontro dei militari che a sera ritornano in via Mascheroni, in Caserma. Si pisciano litri di birra, si cerca qualcosa, se c’è. La Ciumbia si nota per via del rossetto che pare di fuoco su fili sottili di labbra. Nel buio si compra volendo un poco d’amore di bocca, un foglio da mille è anche troppo. La sera rimbomba di suoni, del cupo ronzio dei motori. Poi tutto si spegne di colpo, se tornano dentro i soldati. Rimane nell’aria soltanto lo scroscio dell’acqua che scorre in un pisciatoio di latta. La Ciumbia pian piano si tinge di nuovo la bocca.
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LES CHIMERES
Se dico Le Chimere, già trasalgo. Subisco l’incantesimo che viene dalle parole. E non importa il senso. Chimere vuole dire un altro mondo, promesse disattese, profondità insondate della mente, memorie cromosomiche irrisolte e pura suggestione d’altri altrove. “Les Chimeres”, un albergo senza stelle davanti al Porto Vecchio a Saint Tropez. Un piccolo edificio fatiscente col fascino inquietante dei fantasmi. Il mio fantasma vive qui da sempre, è qui che sono morto il sei novembre del millenovecentottantasette. Era una sera lugubre di pioggia, nessuno per la strada e scegliere il mio luogo per morire è stato così facile alla fine. Les Chimeres, cambiato è ormai da tempo il nome nella piccola insegna sulla strada ed il colore delle lampade del viale ma il mio fantasma rimane sempre qui, comunque vada.
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PIAZZA DUOMO 19
Ritorno a volte in quel palazzo al centro di Milano, in Piazza Duomo 19, al quinto piano. Un portoncino in legno a due battenti e serrature e pomoli d’ottone quasi a specchio. Tre camere su strada, un corridoio e la cucina grande. Ormai da tempo un gran silenzio dentro e l’aria vecchia e l’ombra di mia madre sull’acquaio. Non resta un altro segno sulle cose, né la sua voce nelle stanze vuote e notte, dopo notte e dopo notte si fanno bruni d’ossido e di morte i rilucenti pomoli d’ottone.
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DAMASCO BRUCIA
Acqua soltanto il mare che separa due spiagge uguali sulle opposte sponde; aria che corre il vento che ci sfiora e che solleva solo sabbia, in fondo. Pioggia che batte contro le persiane è come un pianto lungo che trabocca. Torce le mani e piano si dissangua quell’operaio che non ha lavoro e sanno di tristezza e d’abbandono le morti miserabili dei vecchi dimenticati al buio degli ospizi
e muoiono i bambini di Damasco,
la gola divorata dal veleno dei gas letali. In fondo pure questo non è che un modo antico di morire. Non c’è stupore e non c’è novità, quello che accade è come sempre uguale. Fatico un po’ a capire se ci penso e poi mi dico: un giorno dopo l’altro una ferita; ma è proprio tutta qui la nostra vita?
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IL FIORE GIALLO
Dormivo quieto e non avevo sogni a risvegliarmi, poi, sul mattino, un grido e dentro una voragine di rabbia quell’urlo di una donna, come un taglio. So quasi tutto, so che le ferite guariscono col tempo e la fatica. Una cosa soltanto non guarisce: il male dentro, il male e la coscienza. La donna sa che cambierà ma poco. Prometterà che nulla sarà uguale, che sarà buono e mite e che le mani saprà tenere al posto dove deve. Violento e prepotente è solo un uomo e a volte una voragine di niente. La donna invece è il prato dove cresce ad ogni primavera un fiore giallo.
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MORIRE A NATALE
Ho sognato una bimba sognare; alla porta del cuore ho avvertito il suo sogno bussare. Non chiedeva un giocattolo nuovo né un pupazzo di neve. Nel suo letto di piaghe aspettava, con la musica dolce dei canti della gente felice, il tinnio dei sonagli alle slitte di Babbo Natale. L’ha aspettato per giorni e per ore, per un’ultima notte stanotte. Quando il canto s’è udito ha potuto socchiudere gli occhi. Sul cuscino ha lasciato, trattenuto sul bordo di ciglia, un sorriso e uno sguardo dorato. Si combattono al mondo battaglie e si sparge del sangue innocente e si perde una guerra ogni volta, sul lettino di un angelo biondo che si lascia morire per niente.
(dedica a Fernando Bandini, poeta, morto il giorno di Natale 2013)
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DOVE CROLLANO I MURI
Visitammo deserti. Le rovine sepolte di città sconosciute che il tempo ha scordato di scrivere dentro alle carte segrete. La memoria mi assista, ricordo che con orbite vuote ho guardato il cadere dei sogni, nel vento. Sono entrato nei templi ed ho aperto le porte che la notte ha socchiuso. Prudente ho girato per strade deserte e ho sorriso a fantasmi. Porterò come dono agli altari la mia anima inquieta che si ferma a pensare nei luoghi dove crollano i muri di città che la sabbia sommerge. Siamo qui che aspettiamo dagli anni che ritornino verdi tutti i prati all’intorno e che nasca dal vento la città che sperammo da sempre. Visitiamo deserti per cercare città sconosciute dove crollino i muri del tempo.
34
A UN’AFRICA VICINA
Così violento il vento del deserto che stanotte ha soffiato su Milano e seminato sabbia, come fuoco, sulle macchine in sosta e i marciapiedi. Quell’Africa lontana è più vicina ed ha i colori del bronzo sulla pelle delle donne e il nero d’occhi accesi di bambini. Non siamo soli più con quel che siamo, villagi inespugnabili a un nemico che immaginiamo. Ora si sa che respiriamo insieme gli identici profumi nell’aria che ci giunge da lontano. La sabbia rossa, come in sospensione, è un’Africa che giunge come un dono nell’alito del vento che ci sfiora al modo del respiro di qualcuno che dolcemente e inconsciamente amiamo. Il vento espugna torri di castelli, visita chiese e non conosce muri. Il vento è il fiato caldo che ci giunge da un’Africa che abbiamo dentro il cuore, pianeta perso dentro mille offese.
35
IN TANTI PORTI ED IN NESSUNO
Andiamo via di qui. S’è fatto tardi ed io non voglio stare dove stanno le donne che patiscono in silenzio.
Io posso avere male, disperarmi però voglio gridare, dare fiato al mio tormento e che nessuno dica che sono pazza e non so stare al gioco. Passato è il tempo del silenzio, quando tu mi ferivi ed io tacevo inerme e mi dicevi quello che si dice alle femmine isteriche che piangono.
Le tue promesse, come canne al vento, hanno frusciato per le mille notti, poi, come l’acqua, sono svaporate in nuvole leggere dentro l’aria.
So già che dovrò vivere da sola, che il sogno di tenerti all’infinito è già finito. Tu non sai restare. Non ti trattiene il bene che c’è stato né le promesse e il pianto che mi scioglie. Neppure un figlio, la magia d’amore, il segno di un legame indissolubile, ti obbliga a restare. Tu rinneghi qualsiasi cosa ti trattenga a terra. Sciogli ogni ormeggio e salpi ad ogni sera da questo approdo verso ignoti mari.
36
MANI DI CERA (a mia madre)
Un giorno, un mese e un altro po’ di vita hai speso a ricamare quella trina eppure tutto il tempo e la fatica dispare mollemente nella trama. Le mani troppo a lungo hai logorato alla fontana e consumato gli occhi sulle righe di pagine sgualcite al debole chiarore di candela. Avrai mani di cera, finalmente, le stesse mani di chi dorme a lungo e ci dirai: “ se ormai non servo a niente, non voglio più svegliarmi. E vi saluto.”
37
VOLARE VIA
Qui dove il giorno è stato prepotente, la luce cede piano e si confonde con l’avventura di una notte nuova che dolce come l’acqua si propaga e allaga questa valle d’ombre opache. Questo era il mondo ed unica la scelta.
Figli da fare, case da abitare e solo due pensieri da pensare. Fu quella sera, innanzi a un fuoco acceso, la voce rotta: “vado via, mi basta la vita già vissuta in questa casa. Mi ha scelto un uomo e prendo la sua mano.”
Si sciolgono in un attimo catene, si sceglie di non scegliere e di andare. Si dice sia l’amore ma forse è solo voglia di fuggire, d’essere donna, fare figli e fare, in una casa nuova un nuovo altare. E’ di una donna la coscienza ardita che sceglie di concedersi il respiro, la sola cosa al mondo che possiede.
Qui, dove il giorno è stato prepotente, è nata l’avventura di mia madre e la sua storia è come mille, uguale. Si dice che sia stato per l’amore ma forse è stata voglia di volare.
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GLI ADDII
Più forte del dolore la paura; paura di provare altro dolore, così ho taciuto a lungo senza dirlo ed è accaduto troppo spesso allora così ogni volta ho scelto di fuggire. Mia “dulcissima mater” ora ho capito che si diventa un uomo solo quando, quando si impara a dire il primo addio. E’ stato così dolce averti accanto per tutto il tempo di una vita ed oltre ed ora è così triste la certezza che non ci incontreremo, per l’eterno. La mia sola speranza d’infinito è in questo far durare più che posso il nostro dirci lungamente addio.
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MIO PADRE INVECE
Inquieta fantasia delle salite e dopo invece, discese mozzafiato senza freni, su spire di serpente arrotolate per strade ardite. Sorride ancora da una vecchia foto, la mano sul manubrio e sulla maglia il nome di battaglia. I sogni non si appagano vivendo ma solo dopo. Inseguirai le ruote palmerate di quelli in fuga, avanti tre tornanti, per prenderne la scia. Sul lungo rettifilo dell’arrivo, l’ultimo scatto. E via!
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L’ESTATE E’ UNA STAGIONE UN PO’ CRUDELE
E’ stato quasi come se la notte si fosse fatta bianca di lampeggi, come se l’aria, a un brivido di foglie, si fosse accesa di bagliori verdi. L’estate che finisce ha riti assurdi, burrasche in alto mare e mareggiate che vengono a morire alla battigia, groppi di vento sopra le lagune e nebbia di salsedine nell’aria. Fragore di una scena che si muta ora per ora e toni di tragedia. Non muore mai in silenzio, se ha ballato, l’estate ardente nella sua calura. Non muoiono le storie di prodigi e d’avventure quando viene sera. Rivivono al mattino, insieme al sole, miracoli di sogni e d’emozioni. Non rivivrò con te la meraviglia del nostro stare insieme, silenziosi, ad ascoltare il canto degli uccelli, il brivido del vento tra i cespugli, la musica lontana delle stelle. Un’altra estate tornerà tra breve con altri tuoni e lampi e nubifragi ma il mio coraggio e la mia voglia folle si va spegnendo come fiamma al vento. Vado cercando spazi silenziosi, angoli bui dove stare quieto. L’estate è una stagione un po’ crudele. Ormai più non resisto al sole pieno e cercherò, in un angolo segreto, l’ombra gentile che si addice ai vecchi.
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FOULARD DI GUCCI
Mi guardi, mi vedi poi strepiti forte, più forte d’un urlo dal fondo mi gridi una frase d’amore. Distesa di neve che brilla di stelle s’accende d’un tratto, alla luna. Un sogno non mio; dalla tolda d’un bianco vascello che affonda mi dici parole di seta sottile,
foulard delicati di Gucci,
cavalli dipinti e staffe dorate, tappeti di foglie d’autunno. Non voglio raggiungerti, tanto se io m’avvicino, lo spazio si allarga di colpo e s’aprono sotto paesaggi di un’anta d’armadio. La radica in noce disegna abissi profondi e cime di monti, voragini dove si perde la mente ed il cuore. Poi basta che piano mi tocchi perché mi risvegli di colpo. Se guardo d’intorno il sogno ha lasciato soltanto le sete di Gucci e quell’anta d’armadio che come uno specchio riflette me stesso, disperso, che mentre ti cerco, ti perdo.
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CI TOCCA
Non piangere cara, ci tocca. La vita di un figlio ci sfiora soltanto e non lascia che un’ombra di se. Se non basta avremo, per gli occhi, la foto che ride, il pupazzo di neve, quel giorno d’inverno, ma dove? Il posto in cucina, la sedia ch’è vuota da tempo aspetta che venga Natale. Non resta che il poco che serve e arriva ch’è stanco e svogliato. Non parla e se dice, capire è difficile a volte. Contesta, protesta e si inquieta con me, per le cose che dico. Non piangere cara, ci tocca; ai vecchi non resta che farsi da parte. Le nostre parole non hanno più ascolto, la voce che occorre non trova il coraggio e piano sprofonda così che alla fine il silenzio divora l’estrema parola che affiora alla bocca. Non piangere cara, ci tocca.
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UN ABITO A FIORI DI CAMPO
Non era rimasto nell’aria che un segno, la piccola traccia che lascia la mano che piano ti sfiora nell’attimo prima che tu non sparisca giù, in fondo alla strada. Ti ho vista arrivare, improvvisa, la snella figura stagliarsi danzando nel debole raggio di sole che spiove tra i rami del viale. Sei parsa volare nel piccolo spazio tra noi, che separa la viva farfalla che sei da chi sono, un debole stelo piegato dal vento leggero di maggio. Vestivi la veste leggera di tutte le donne del mondo nei giorni di primavera. Un abito a fiori minuscoli e vari così che abbracciarti pareva tuffarsi nel sogno in un prato.
Mi sono svegliato di colpo all’urlo di un’autoambulanza che corre furiosa per strada. C’è stato qualcosa all’incrocio; per terra, in un lago di sangue, qualcuno travolto da un’auto pirata. Lo vedo dall’alto, il piccolo sacco di stracci, quell’abito a fiori di campo, venuto a morire stamani sull’uscio di casa.
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L’ARCHETIPO DI CASA
Quanto più vivo e vedo più si fa grande il vuoto dentro. Facevo foto un tempo creandomi un archivio, per quando sarò vecchio, mi dicevo. Ricordo poco ormai; difetto di memoria ma non credo, credo piuttosto a un modo originale di scegliere col cuore quello che conta e quello che non vale. Se dico “casa” mi tornano alla mente le case che ho abitate e tutte quelle ormai dimenticate. Si radica di dentro come un male la prima casa in cui ci siamo accorti di abitare. La casa rossa sulla ferrovia, una piccola porta per entrare e due finestre a lato, il fumo di un comignolo che sale. Un cielo azzurro ed una nuvola soltanto e un sole tondo nell’angolo su in alto. Ho seppellito dentro quella casa l’archetipo di tutte le dimore, così se cerco la mia idea di casa devo scavare al fondo del mio vuoto, dentro la tomba della mia memoria. A quella casa non ho fatto foto.
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MI TIENE VIVO L’INCERTEZZA
E’ passato così, senza rumore il tempo della vita che davvero è stato come un lampo. Mi rammento d’un’infanzia felice e inconsapevole e d’altre età sprecate inutilmente.
Io l’ho buttato il tempo della mia desolata giovinezza, tutto il tormento dell’insicurezza per ciò che sono e sono stato. Ho avuto un corpo fragile e malato, ho temuto di tutto e ho sperperato giorni su giorni a compatirmi e a dirmi che non avrei potuto stare al gioco.
Stando di lato, il mondo non si cura di te che non ti adatti alle battaglie. Ti isoli e ti culli in fantasie d’estraneità dorata e quanto più ti affondi nel silenzio più godi del piacere d’esser solo.
Coltivi dentro il seme di un fantasma inadeguato a vivere nel mondo.
Sono approdato a questa spiaggia estrema nudo e sfiancato e senza alcun bagaglio. Il retroterra è un campo di battaglia, ad ogni cippo solo una sconfitta. Non ho memorie, punti di partenza, quello che posso è cominciare adesso.
Nel mio futuro un’altra giovinezza, un’altra storia e tanti nuovi approdi. Mi tiene vivo, in fondo l’incertezza, la mia precarietà, la voglia folle d’altre bandiere da affidare al vento, di nuovi porti ed altri approdi certi.
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SEGNI
Io leggo segni sempre e ovunque vada leggo la traccia piccola che c’è del tuo passaggio lieve in questa casa. Un segno appena, la tua tazza bianca col bordo di celeste e sul cuscino l’impronta ancora tiepida di te. Un segno nei sentieri del giardino, ciocche di fiori dentro i vasi appesi nella pergola accanto alla fontana. Un segno dentro me che mi affatico a trattenere il filo di memoria che mi tiene agganciato alla mia vita.
Ricordo segni sulle rocce rosse dei dirupi scoscesi all’Esterel. Un segno piccolissimo su un sasso tracciato con un guscio di conchiglia per ritrovare, un giorno se si passa, il luogo di un picnic tra le lavande. Sul candido sepolcro di Chagall, ho abbandonato un sasso levigato e nero come un abito di scena per la casa in collina di Gerard.
Sassi su sassi ed altri sassi ancora, segni su segni in cumuli infiniti, a erigere muraglie di difesa, a fare case, a lastricare strade di discesa. E sopra i muri una parola incisa per dire quanto valgano i pensieri.
Amo i sentieri dove è già passato il cacciatore nelle aurore insonni ed amo i porti e tutti quanti i mari navigati. Amo le croci al vertice dei colli ed agli incroci certe santelle povere di fiori. Amo te che mi chiami da lontano col segno della mano e lascio tracce e inseguo tutti i segni di chi mi piace e che mi incrocia a caso, di quelli che mi amano e che amo.
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TRA ME E L’INFINITO
E’ un giorno di vento quest’oggi e già dal mattino si annuncia la bella ventata che spazza le candide nubi di panna. Il cielo diventa più azzurro dei giorni di maggio, dei tiepidi giorni che tutto si fa trasparente cristallo. I prati, davanti alla casa, si increspano all’aria al pari di un mare sfiorato da un volo di rondini, a raso. La mamma mi ha fatto, con carta crespata e stecche di canna e colla di latte e farina, un cervo volante più bello di un sogno a colori. Cerchiamo nei prati ondulati il punto più alto, il sommo di un colle da poco per dare lo slancio che occorre. Ondeggia nell’aria poi cade e questo una volta e poi mille. Non cullo illusioni, so già da gran tempo che quello che spero non capita mai. Mi accontento. Per tutta una vita ho sperato che tanti aquiloni potessero un giorno librarsi nel cielo dei sogni. Nessun aquilone ha volato per più di un minuto così tra le mani mi resta nient’altro che il capo di un filo. Quel filo tra me e l’infinito che inizia e finisce in un prato.
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PORTERO’ CON ME
Li porterò con me, nelle pupille, i palpiti di stelle, lo scintillio delle fontane al sole e i suoni della musica degli astri e i canti delle donne nelle sere. Non si disperderà nell’universo la somma inenarrabile di cose vedute e amate. Io, come un recipiente, un reliquiario sacro a custodirle. Tu dentro me, con la tua luce bella, con gli occhi che saettano di sguardi e con le mani lievi di carezze.
E poi se tutto o quasi tutto si perdesse.
La luce azzurra sopra la laguna, il tremolare incerto tra le canne del sole che si affonda all’orizzonte. Se si perdesse il bene di questa sera calda, il desiderio di fermare il giorno, fino ad un’ora tarda, perché continui il gioco di questa luce nelle tue pupille. Se tutto si perdesse e andasse via il ricordo di rondini impazzite tra le case, se mi morisse dentro l’ansia di avere e cogliere nell’aria la verità di Dio. Se si perdesse e se davvero tutto si perdesse,
vorrei finire ma finire adesso.
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POLVERE SOTTILE
E si va via da questa superficie come un segno di gesso alla lavagna. Un gesto ci cancella in un istante, resta di noi una polvere sottile. Perché affannarsi allora a farci male, a roderci di rabbia, a tormentarci lasciandoci alle spalle anche l’amore. Trattieni le parole che conosci e non lasciarti andare. Parlale piano, dille che ti occorre ancora un po’ di tempo per pensare. Se non sorride mentre tu le parli, è troppo tardi ed è lontana ormai. Non trattenerla allora che un istante, abbi il coraggio di lasciarla andare.
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IL BATTITO DEL CUORE
Ho freddo dentro, scaldo le mani al fuoco del camino e illumino la pagina che ho aperto al rosso della brace. Il gatto dorme acciambellato sul cuscino. Tace la pendola se osservo il suo oscillare. Il tempo che trascorre nella pace illude che appartenga alla mia carne il po' di eternità di questa vita. Se il cuore batte come rallentato è bava d'esistenza che s'attarda soltanto per illuderci che il tempo duri per sempre se si sta in silenzio. La vita vera invece si consuma col battito del cuore che galoppa, con la passione che ti brucia in faccia. Ed ogni azzardo che si fa per gioco ed ogni sguardo che rivolgi a un altro lasciano segni come di ferite, cicatrici di vita , un medagliere da esibire sul petto, il testimone di aver patito tutto quel che occorre e aver vissuto insieme tante vite.
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IL TARLO E LA MEMORIA
Sarà così per lungo tempo ancora che ti verrò a cercare come fossi ancora lì, ad accogliermi sull’uscio della tua casa. Attendere qualcuno che non viene lascia sul cuore come una ferita; non lo sapevo o forse non volevo dirmelo allora. Lo capisco invece adesso che pian piano arrivo al punto di non ritorno. Non c’è un modo solo di riparare al male che ci opprime. Il tarlo che ci rode avrà il suo tempo e solo la memoria che si incrina ci toglierà, col bene del ricordo, il male che ci fa l’avere invece dentro di noi la pena del capire. Per lungo tempo, poi con la memoria si cicatrizza il cuore e la ferita, svaporano nel nulla i sentimenti, si attenua la coscienza della vita.
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ANCORA VENTO
Vento di primavera, così improvviso che arrivi e mi porti un soffio di paradiso. Vento con il profumo di gelsomino, che mi sollevi in cielo come un bambino. Vento come farfalla che si gingilla, e si fa bella al bordo di una corolla. Vento che sento forte e mi brucia gli occhi, vento che ti balocchi con mille foglie che strappi al ramo in vortice e poi scompigli. Vento che ti conosco come un fratello dolce rabbrividisci sulla mia pelle. Portami in dono il sogno che mi somiglia, come il messaggio chiuso nella bottiglia. Vento di tutti i venti di primavera fammi sperare che oggi non venga sera.
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COME GIUNCHI
Rivedo in questa donna che ho vicina quella sua giovinezza rigogliosa. Le sbocciavano i seni come fiori che cercavano il cielo e il ventre esiguo come un’anfora cava profumava dei profumi dei prati sotto il sole.
Il tempo che ci piega come giunchi mi toglie solo ciò che non ho avuto e ruba la ricchezza, dove c’è. Tu depredata, tu non sei più tu. La tua bellezza andata mi dice che è così che si finisce.
Noi naufraghi approdati alla battigia di quest’ultimo scampolo di vita, ci sorridiamo in questo parco di città dai lati opposti dell’identica panchina.
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PAPAVERI
Ti porterò un papavero rovente di rosso fiamma e i petali di vento se saprò trattenerli almeno il tempo che occorre ad arrivare fino a casa.
L’ho colto adesso al bordo della strada e prima che la polvere lo copra di un velo sottilissimo di bianco.
I papaveri ridono di nulla, come le tube in un concerto grosso, nei campi di frumento sventagliati dal vento della notte.
Solitario il papavero che ho colto è quel sorriso che non ho per te. Sono come una pietra del sentiero che piange d’acqua solo quando piove e poi si asciuga lentamente al sole. Rido con gli occhi, a volte al tuo pensiero ma rido sempre quando sono solo.
Ti porterò il papavero rovente del riso rosso che vorrei per te. Lo stringo tra le dita perché trema dell’aria intorno che lo sfiora a tratti. Cammino piano, sono quasi a casa. A un angolo di strada una folata e i petali si perdono lontano. Il mio sorriso è andato e nella mano l’esiguo stelo e un cuore quasi nero.
Non ho altro spazio e non so più che fare eppure io ci devo riprovare. Lo cercherò il sorriso da raccogliere al bordo polveroso di una strada di un fiore uguale. Un papavero rosso come fuoco.
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PREGARE A VOLTE
Pregare a volte è solo una metafora. Come la donna fa, quando si leva; spalanca le finestre d’ogni stanza, crede che l’aria fuori sia più pura. Accende il fuoco sotto al bricco d’acqua poi rigoverna e con la stessa cura del giorno prima, stende sui fili tesi del balcone i panni in fila, stira ogni cosa ed ordina precisa nei piani giusti della cassettiera. Prepara cena e rigoverna ancora poi va a dormire prima. Io mi addormento innanzi alla tv affaticato da un paio d’ore spese sul pc. E siamo qui, noi uomini che siamo ognuno col suo carico di se, di ma e perché. La donna no, perché sa già quel che si può o non può perché così com’è lei è una preghiera vera, fatta di quello che si fa per una vita intera.
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IO SONO LA GRAMIGNA TRA I BINARI (da una suggestione di Pessoa)
L’amore è come un bel ventaglio. Aperto sarebbe ben più bello certamente. Più bello ancora invece è non aprirlo per regalarsi l’intimo piacere di torturarsi il cuore a immaginarlo. Sono così, che prendo ciò che viene, e se non viene penso che sia meglio restare a coltivare il dispiacere. Amo i castighi e specie per le colpe non commesse. Porto un cilicio in cuore e mi compiaccio del mio patire, come fossi un altro. Patisco della vita gli anni trascorsi in tutti i calendari. Io sono la gramigna tra i binari.
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NON C’E’ UN’ETA’
Come ciascuno piango, a volte, la gioventù perduta e piango insieme per chi piange d’amore. Mi consola il non dover patire, per età, pene del cuore. Mi dico quindi d’essere al riparo da tutto quello che mi ha resa amara la giovinezza. Mento a me stesso, mi lascio andare all’euforia del vuoto, poi se ci penso, mi accorgo che si cambia ma di poco. Non c’è barriera alcuna di difesa, non c’è un’età che lasci indenne il cuore e si ritorna a piangere d’amore fino all’istante prima che finisca. E’ in tutto questo il senso della vita.
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IL SOGNO NEL SOGNO (da una suggestione di Pessoa)
Io sono il mio sogno di me. Non esisto e il tempo che passa è ciò ch’è trascorso, la cosa consunta che adesso non c’è. In questo momento io so che non sono ed anche quel tempo che ho visto è l’ora trascorsa che adesso non ho. Se sono in un luogo e ignoro chi sono è come se il tempo non fosse ed io stesso non fossi nient’altro che un sogno nel sogno.
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LAGER
Gli altissimi pioppi, alla curva, proiettano bianchi cavalli nel cerchio lucente di luna. Cristalli di neve riflettono un cielo di vette, sequenze di candide gonne che danzano al vento notturno. Un’auto che passa, coi fari abbaglianti, sventaglia di luce le sagome scure degli alberi ai lati. I reticolati, corone di spine per tanti calvari raccontano storie di treni diretti in Germania, nei carri bestiame la carne che piange. Sui lager lontani è sospesa la stessa valigia di luna e reticolati malati di gelo e cristalli rappresi e mani aggrappate a ferirsi. Il bianco di neve si tinge di sangue. La luna lucente si ammanta di macchie roventi. Nel freddo d’inverno trascorre nell’aria la mandria al galoppo. Nessuno si accorge di nulla, non s’odono gridi, la morte che uccide sa farlo anche senza rumore. La luna riflette distese di neve, criniere di vento e il gelo rapprende i silenzi.
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I N D I C E
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE L’INCAPACITA’ DELLA PAROLA FOTOROMANZO E VICEVERSA LE POSSIBILI INTESE EPANALESSI LA TRISTE ALLEGRIA DI ALBINONI UN’OMBRA CHE MI SEGUA L’INSIGNIFICANZA FLUSSO DI COSCIENZA COME IL SASSO SULL’ACQUA CIELITUDINE NESSUN SEGNO, NIENTE IL PRIMO TRENO A MIA INSAPUTA NESSUNO CI APPARTIENE COSI’ E’ MORIRE SAREBBE PIU’ FACILE TUTTO VORREI TU MI VEDESSI LA STRADA DEL NIENTE ASPETTANDO LA SENTENZA IL SOGNO DI VOLARE COME HO TROVATO LASCERO’ A ROGOREDO FATA MORGANA (a Reggio Calabria) PORTA ROMANA MILANO VIA GHIBERTI LA CIUMBIA LES CHIMERES PIAZZA DUOMO DAMASCO BRUCIA IL FIORE GIALLO MORIRE A NATALE DOVE CROLLANO I MURI A UN’AFRICA VICINA IN TANTI PORTI ED IN NESSUNO MANI DI CERA VOLARE VIA GLI ADDII A MIO PADRE L’ESTATE E’ UNA STAGIONE UN PO’ CRUDELE FOULARD DI GUCCI CI TOCCA UN ABITO A FIORI DI CAMPO L’ARCHETIPO DI CASA MI TIENE VIVO L’INCERTEZZA SEGNI
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TRA ME E L’INFINITO PORTERO’ CON ME POLVERE SOTTILE IL BATTITO DEL CUORE IL TARLO E LA MEMORIA ANCORA VENTO COME GIUNCHI PAPAVERI PREGARE A VOLTE IO SONO LA GRAMIGNA TRA I BINARI NON C’E’ UN’ETA’ IL SOGNO NEL SOGNO LAGER
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
Silloge di 60 poesie
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
Aride stelle in cielo; geometrie senza emozione, senza luce, senza una semplice nota dissonante, una parvenza minima che parli della bellezza dell’imperfezione. Questo universo immobile ci incanta e l’ordine perfetto ci seduce ma vivere è tutt’altro. E’ il fango che produce le fioriture magiche del cuore. Si vive male, a volte, ma si vive malgrado la follia degli assoluti. Si spera il sole e intanto ci si appaga del freddo di un inverno senza luce. Il vento cresce e porta neve all’uscio delle case, risale le colline addormentate nell’infinito sonno senza luna. Come in letargo, la natura tace e un tempo impercettibile trascorre sull’orologio, al muro di cucina. Non farei cambio della mia fortuna di vivere una vita irrazionale con l’equilibrio inutile dei saggi. La geometria perfetta dei solstizi genera mostri. Solo il cuore, la sua tachicardia disordinata, dà il giusto ritmo al vivere una vita di un’unica certissima nozione: la meraviglia dell’imperfezione.
1
L’INCAPACITA’ DELLA PAROLA
Logora il cuore quest’incapacità della parola a dire l’indicibile, a tentare, solo a tentare almeno di cogliere in un verso l’incantesimo di ciò che accade, a volte, in un istante e che sappiamo nessuno al mondo potrà più rifare. E fugge via di lato e non sapremo mai come raggiungere il lampo colorato tra le foglie, il sogno d’aria, del sole che traluce tra le case in questo pomeriggio di città. Nessun istante è uguale a un altro e quando il cuore è rassegnato al suo destino opaco, qualcosa d’impossibile a ripetersi, all’improvviso accade. Tu mi sorridi da una lontananza e il tuo sorriso emerge quasi come da una nuvola bianca, una colomba. Come quel raggio pallido di sole che traluce tra le foglie in questo inverno freddo di città. Ed è così che per un giorno ancora non si muore.
2
FOTOROMANZO
Tutto pareva svaporato, al tempo e tu svanita, come alla memoria, la pallida parola che fu detta l’attimo prima di finire. Fanno come le foglie quando arriva il vento le tende alla finestra della stanza. Sembravi, dentro l’arco della porta, quasi la forma della lontananza. Spargeva il lume, come fa la luna, un misero chiarore, quasi bianco. In un istante la figura incerta, come d’incanto, si è dissolta in nulla. Siamo fantasmi, corpi inconsistenti, monadi sperse della stessa storia, siamo gli avanzi dello stesso pranzo o solamente come bolle d’aria. Siamo le frasi, chiuse in un fumetto, di personaggi da fotoromanzo.
3
E VICEVERSA
Io sono ciò che penso e viceversa. Che questo corpo sia cosa concreta o sia semplicemente il mio pensarlo a dargli vita, a farlo esistere davvero e sia così per ogni sentimento, per il piacere d’una musica che m’entra fino al profondo, chi potrà dirlo mai, chi potrà dirlo. E quella tua bellezza che mi seduce e mi fa credere che esisto. Non ho certezze ormai, non so più niente di quello che sia vero o che si inventi la mia mente contorta e delirante. Ti tocco con le mani e mentre avverto, sotto le dita, la tua pelle liscia, ho il dubbio che i miei sensi mi tradiscano e che tu esista solo se ti penso. Mi perdo in un delirio in cui capisco di essere null’altro che il pensiero di un altro che mi pensa. E viceversa.
4
LE POSSIBILI INTESE
Impiego il tempo a ricercare intese, complesse ed impossibili, alle volte e metto in campo tutta la pazienza per ricercare un punto di contatto. Mi snervo e mi esaurisco nello sforzo di dirti, senza urtarti, ciò che penso. Le mie parole cadono nel vuoto perché non so trovare l’argomento che possa condividere con te. Tu sei testarda e irremovibile e mi pento del mio tentare approcci inutilmente. Finisco col pensare che non possa esistere una cosa che ci unisca. Porto pazienza un attimo, poi esco ad incontrare il mare che conosco. Oggi è infuriato e schiuma alla battigia come un cavallo che abbia corso a lungo. Iroso ed irascibile mi sembra, almeno in apparenza ma se socchiudo gli occhi e sto in ascolto mi rendo conto che mi acquieta dentro il suo respiro fragoroso e lento.
5
EPANALESSI
Il cerchio che si chiude. L’inizio che riparte dalla fine, come nel cane il muso con la coda. Io conoscevo un tempo le parole, non tanto quelle che si imparano sui libri ma ciò che corrisponde al fiato e al cuore. Parole come cellule viventi, cose di carne e sangue ed escrementi, messaggio esistenziale preesistente a quel che sono e al mio concepimento. Parole intense e magiche che il varco nella vita ci preclude. Parole che si scordano esistendo, come il male del nascere e il terrore del viaggio nel canale vaginale. Il necessario oblio della paura è come ciò che accade alle parole. Mi illudo a volte, per via di qualche sprazzo di memoria e luce dentro un buio prenatale, che tutto torni al punto originale. Epanalessi, in fondo come dire l’inizio che riparte dalla fine. Le troverò cercando le parole per chiudere quel cerchio che non chiude.
6
LA TRISTE ALLEGRIA DI ALBINONI
Ho frenate allegrie, come adesso che mi sento distante da me, come un cielo in tempesta su un paese soltanto intravisto nella nebbia di un sogno. Una nube sinistra ora incombe sul villaggio alla cima di un colle, prati verdi in salita sulla costa di un nastro di strada, una quiete perfetta che esplode in bagliori di luce improvvisa. Allegria di naufragi nel sogno di qualcosa di inquieto e perverso, allegria di non essere e stare di lontano a guardare. Ho frenate allegrie del passaggio di una nave nei mari pacati della luna, le notti d’estate. Ho frenate allegrie d’abbandoni a una musica dolce d’orchestra sulle molli lagune.
Sto pensando alla triste allegria di Albinoni.
7
UN’OMBRA CHE MI SEGUA
La nebbia fuori ha soffocato il mondo. Dalla finestra aperta sui cortili osservo il poco cielo che traspare come una scena dietro ad un velario. Antenne di tv come fantasmi, comignoli che fumano di bianco. Un mondo sofferente si addormenta in questa luce pallida che pare un mantello pietoso che ricopra una città che muore. Così perso, mi lascio andare al sogno ricorrente di andare via di qui, verso altri lidi dove non muoia il sole nei tramonti, dove la luna transiti sui colli tutte le notti, luminosa e immensa. Ormai non so resistere all’affanno di questa nebbia, fumo di un incendio che ottunde la mia mente e mi confonde e mi fa fare cose senza senso per rapinarmi il tempo che mi resta. Voglio cercare il sole dove c’è e voglio avere un’ombra che mi segua per farmi compagnia, sola certezza mia che sono vivo, esisto e lascio un segno.
8
L’INSIGNIFICANZA
Andare via da qui, come d’autunno la nube spinta al filo d’orizzonte da un alito di vento mentre il giorno apre le porte a un brivido di luna. Pallida e assorta lacera l’assurdo precipitare lento nella notte. Vorrei partire come l’aeroplano che taglia il cielo col suo volo sghembo. Vorrei lasciare il nulla alle mie spalle e nessun segno del mio passo incerto.
E’ l’insignificanza il mio messaggio, l’inesistenza il ruolo che mi tocca. Farò di tutto, come ho sempre fatto, perché mi si dimentichi al più presto. Voglio andar via in un attimo e sparire come la nube ch’è trascorsa adesso. Rimarrà il vento e il chiaro della luna e correranno il cielo per l’eterno. La nube sparirà come sparisce l’aria nell’aria e il giorno nella luce.
9
FLUSSO DI COSCIENZA
Rifluisce dal mare alla sorgente il fiume dei ricordi e la corrente si fa violenta, a tratti. Un uomo grande che respira fumo esala dalle nari un’ira sorda. Un cane ringhia alla catena breve. un altro corre libero sul prato.
Ho già finito. Non c’è spazio alcuno per spiegazioni ai miei trasalimenti. Il poco di memoria mi consegna soltanto stralci di realtà diverse, sprazzi di luce dentro un buio pesto. Non so trovare alcuna spiegazione ai miei processi onirici e mi lascio portare via dal flusso di coscienza. Non c’è nessuna scala di valori tra tutto ciò che affiora lentamente. Disordine mentale, confusione e non si sceglie un metodo speciale di catalogazione. In testa allo scaffale un’etichetta e ad ogni mensola soltanto un nome. Non mi rimane più che questo poco, un ridottissimo elenco di parole e a ognuna il suo colore per evocare l’ultima emozione.
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COME IL SASSO SULL’ACQUA
Se mi affaccio alla soglia del vento, da quell’albero spoglio si stacca anche l’ultima foglia. Brucia l’aria di una polvere lieve di neve. Verso sera, come un’onda alla riva si placa la tempesta che ha smosso i pensieri. Solo ieri era quiete e la pace che torna è più dolce di tutte le attese. Da uno scoglio lancio sassi nel mare; ho cercato i più piatti e sottili che rimbalzino a lungo sull’acqua. Io li seguo con gli occhi ed imparo a ripetere il gesto perché duri più a lungo ogni volta. Ogni cosa che pesa, il mio corpo di pietra, si solleva alle volte e galleggia per un salto ed un altro e alla fine precipita a fondo, come il sasso. E’ un destino che incombe questo corpo che sceglie la voragine blu che lo attende mentre dentro ribolle la voglia di restare sospesi, rimbalzando ogni volta più a lungo come il sasso sull’acqua.
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CIELITUDINE
Rubo a Zanzotto una parola sola: Cielitudine e poco dopo parto per l’ignoto. Cielitudine come solitudine e come nostalgia di cieli vuoti o come assurdo ed algido colore di perle di cristallo dentro il sole. Cielitudine, cielo di colline, di boschi e di dirupi sulle valli, curve di strade, tracce di ferite che salgono al San Boldo, come scale. Soligo dorme sonni millenari, Rèvine piange lacrime di lago, San Pietro di Feletto sul crinale sorride del sorriso delle vigne. Cielitudine vasta come un mare, latitudine, punto cardinale, quarantacinque gradi, a metà strada tra l’equatore e il perno del ruotare. Cielitudine chiude la misura d’un infinito tutto da esplorare. Socchiudo gli occhi e dico: cielo e vedo una cupola azzurra e chiuso dentro un orizzonte di montagne care. Ridico cielitudine e mi siedo per farmi seppellire da questa assurda immensità di cielo.
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NESSUN SEGNO, NIENTE
La strana idea che abbiamo di ritrovarci un giorno in un mondo diverso, un aldilà che non sappiamo bene dove esista, ci insegue dalla nascita, da sempre. E’ un’esigenza nostra insopprimibile di alimentare, in fondo, la speranza che tutto non finisca, come pare. Ci piace immaginare un paradiso nostro, un luogo dove si possa ritrovarsi un giorno insieme. Ci sembra intollerabile il pensiero che tutto si esaurisca in questo viaggio e confidiamo in vite differenti, in altri altrove. Eppure siamo, come il fiore e il cane e l’ape e la farfalla e il calabrone, siamo materia e carne e pulsazioni. La nostra fantasia, l’anima intera vive di fede, d’ansia e di speranza. Un infinito orgoglio si figura che all’uomo spetti un’altra dimensione, un mondo differente dove vadano i morti che ci sono stati cari. Io non vorrei per me nessun altrove, mi basterà la vita che ho vissuto. Io sono come il cane che mi ha amato, il passero trovato in un cespuglio. Io sono come il fiore sul balcone che vive il tempo che gli è stato dato. Vorrei, per il mio giorno di commiato, potermi cancellare dal registro, vorrei poter morire integralmente e non lasciare tracce, nessun segno, niente.
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IL PRIMO TRENO
Il primo treno passerà tra poco e la luce velata del mattino andrà crescendo come in un acquario. La bianca luna svanirà nel cielo. Lucifero é ormai quasi evanescente e tante stelle sono impallidite. Tutto é sospeso come in un'attesa e l'aria tace ed il silenzio é greve.
Il primo treno passerà tra poco, soltanto i vecchi sono già per strada.
Dormivo fino a tardi nel mio lettino e poi nel letto grande e non sapevo ancora della luce velata e delle attese. Occorrerà una vita per scoprire che le speranze moriranno all'alba. Allora sarà inutile aspettare il triste primo treno del mattino che le trasporta verso il mondo d'ombre.
Il primo treno passerà tra poco. Soltanto i vecchi sono già per strada.
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A MIA INSAPUTA
La temo così tanto la mia morte che a volte spero si sia già conclusa la tragica avventura della vita e tutto sia finito e d’essere già morto a mia insaputa.
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NESSUNO CI APPARTIENE
E’ troppo complicato aprire il varco nella tua mente che mi sta osservando, entrarti dentro e sciogliere i legacci che ti tengono avvinta ai tuoi fantasmi.
Non mi appartiene tutto ciò che senti, ciò che hai provato e messo tra i ricordi. Nessuno ci appartiene veramente, noi monadi nel mondo degli specchi. Credevo di capirti ma da un vetro mi dava ascolto un altro me riflesso.
Di fuori piove e viene giù dal cielo un fiume di tristezza senza nome. Parole buone non so dire ancora per dare un senso al freddo che mi prende.
Domani spioverà, sarà sereno il cielo sopra noi che ci protegge, sarà più azzurro di un mattino a maggio. Non conta ch’io capisca il tuo disagio, conta di più la mano che ti tendo.
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COSI’ E’ MORIRE
Un cielo azzurro e fondo come un urlo e un aeroplano col suo volo sghembo. Una canzone dal jukebox d’un bar e bimbi che si inseguono per strada tra risa e gridi. Dentro un ospedale mia madre inizia il conto delle ore. Finisce il mondo, tutte le volte che qualcuno muore.
Si oscura il sole e i fiumi che traboccano travolgono città, s’apre la terra e inghiotte prati e boschi ed acquitrini. Tutto si ferma ed anche gli animali si annidano nel fondo dei rifugi.
Così nel cuore e non nella realtà.
Non ci sarà nessuno che si accorga se griderò che non vorrei morire. Il nostro pianto è nulla e si disperde dentro il frastuono delle cose vive: la musica lontana di un jukebox e i canti e i gridi dei bambini al sole.
Si muore soli e senza far rumore.
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SAREBBE PIU’ FACILE TUTTO
Sacrifico parte di me, piano piano, mi faccio ridotto ed esangue, mi strappo da solo brandelli di carne, sparisco di un poco ogni giorno, mi assento e mi annullo così che nessuno si accorga che esisto. Non occupo spazi e non reco fastidio, mi faccio da parte se occorre, mi anniento e mi oscuro. Divento così trasparente da farmi passare attraverso. Non ho consistenza, l’immagine mia nello specchio si incrina al mio sguardo e non riconosco me stesso nel pallido esangue fantasma riflesso. Ho speso il mio corpo pian piano, nel centro del vento che corre nel quale non conta il mio peso. Se tu non mi amassi sarebbe più facile tutto. Potrei liberarmi dall’ansia di esistere ancora per te, come sei, per l’arco di luce negli occhi che hai, per l’ultimo gesto che fai per tenermi sul limite assurdo di questa scogliera di abbracci. Se tu non mi amassi sarebbe più facile tutto.
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VORREI TU MI VEDESSI
Vorrei tu mi vedessi, come mi vedo nel mio sogno, a volte. Nel viaggio che mi porta alla sorgente, al tempo andato e a quella giovinezza che non mi ha amato. Il mio castello avito, il dolce mito io l’ho inventato con la mia pazienza. Mi sono dato scopi mai raggiunti e panorami d’isole segrete. Mi sono visto, per un tempo breve, come in un sogno quello che non sono. Capelli sciolti ed occhi sorridenti e tu che mi guardavi innamorata. Sono passato innanzi ad uno specchio e mi son visto, come sono adesso. Un viso molle ed occhi d’alabastro. Quello che resta, solamente un vecchio. Vorrei tu mi vedessi come mi vedo nel mio immaginario. Ci aspettano altre strade di silenzi ed altre piazze e viali di cipressi ed altri luoghi e mari e cieli azzurri ed altre vite, tante, dopo questa ed altri corpi e volti e specchi d’occhi ed altre giovinezze ed altre morti. Ci aspettano altre tavole imbandite ed altre case tiepide di fuochi. Se mi vedessi per un solo istante come mi vedo nel mio sogno, a volte.
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LA STRADA DEL NIENTE
E’ freddo stamane ma il sole che filtra tra gli alberi spogli ha strani barbagli di fiamma, qualcosa che allude ad un altro paesaggio. Ricordo Camaldoli e i boschi incantati di alberi fitti talmente da fare pensare alla notte e lame di luce tagliente ed avara che passa nell’alto e si perde nel rosso tappeto di foglie. La strada si fa rumorosa di luce e parla con voce suadente di un altro universo e di primavera imminente.
E’ solo la fine gennaio ma incombe un presagio, qualcosa mi illude che il freddo stia già per finire ed arrivi la festa di rane nei fossi e la crudeltà dei ditischi, i gridi di rondini a sera. La vita che corre al finire ha sprazzi improvvisi e aspetta dal giorno che viene un’altra promessa. Dimentica a volte che ognuno dei giorni che passa, magari splendente di luce, è un passo di più sulla strada che va verso il niente.
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ASPETTANDO LA SENTENZA
Come in attesa, stiamo qui seduti, nel modo di chi aspetta una sentenza. E’ solo questo quello che ci è dato, è vita che si spende come il fiato. Eppure, nonostante l’evidenza, è troppo bello stare qui aspettando che l’esistenza, un giorno dopo l’altro, aggiunga un altro istante ad ogni attesa.
Godersi primavere d’aria tersa come i ragazzi e l’ipotesi del volo per farci immaginare onnipotenti o come l’incertezza dei tramonti e i vecchi in una tenera demenza.
E’ bello stare qui che si galleggia al modo di libellule sul lago o come la cicala che dispensa un canto che perdura fino a sera. Tutto è già dato e niente più ci spetta; abbiamo avuto dosi di veleno e antidoti di gioia e d’abbandono, profondi precipizi per cadere ed ali nuove per tornare in volo.
Questo ci è dato e niente di diverso, il resto che ci spetta ci è negato.
Inutile aspettare la sentenza, tutto finisce come è cominciato.
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IL SOGNO DI VOLARE
Non so pensare ad altro che al perverso senso di vuoto che mi prende, a tratti, tutte le volte che mi lascio andare al sogno di volare. Librarmi in aria quasi senza peso, come una foglia a un alito di vento e come quella pagina di libro dalla panchina di un giardino al sole. Una poesia d’amore vola lieve come sorretta in cielo da parole vuote di senso ma ricolme invece d’un’emozione che trasporta il cuore là dove vuole. Mi ricordo un tempo in cui pensavo di potermi alzare, sopra le cose come levitando, per osservare il mondo da lontano, io, l’aeroplano nel mio sogno grande. Si piomba giù di colpo nella vita e si rimbalza a lungo come una palla o come un sasso piatto, sull’acqua troppo ferma di uno stagno, per poi finire a fondo. Non ho mai smesso credo di sognare e sono ancora qui che spero, a tratti, per un’ultima volta di volare.
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COME HO TROVATO LASCERO’
Non mi accomiato mai da nessun luogo e da nessuno e sempre, ovunque vada, accumulo ricchezze di paesaggi, visioni mozzafiato di vallate, immagini disperse e ritrovate di luoghi amati e di persone e cose. Amo ogni oggetto d’un amore folle che non è voglia inutile di avere e possedere ma soltanto il segno che so capire il fascino che hanno e la memoria che si chiude dentro e che si incrosta, a volte, su tutto ciò ch’è appartenuto ad altri. Ed amo immaginare i volti ignoti di chi mi ha preceduto, l’intera umanità che ha già vissuto ed abitato a lungo queste valli. Le loro mani strette sulle cose e gli occhi a carezzare i cieli azzurri, i monti immacolati sullo sfondo e tutto ciò che adesso vedo e tocco. Amo la vita che mi tocca in sorte e quella già trascorsa che ricordo e l’infinito numero di quelle di chi mi ha tramandato le sue cose, le immagini racchiuse in un quaderno, la pendola in salotto, le posate d’alpacca nel cassetto. Non mi accomiato mai da nessun luogo e da nessuno e tutto, come ho trovato lascerò ed intatto mi possa risorridere ogni volta il sole che, riflesso da una pozza, dopo la notte, come sempre torna.
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A ROGOREDO
Una tristezza di periferia, in questi casermoni disumani al limite di un mare di binari. Stazione Rogoredo di Milano una tristezza vaga d’abbandono, lo stesso odore acuto di città dei cessi desolati dei vagoni e identico il colore, il grigio delle case di ringhiera. Milano alla mattina è triste come il sogno che finisce quando la sveglia ha già suonato l’ora. Ho visto cose e so di storie strane che si ascoltano stando in compagnia. Scompartimenti colmi di sudore quando si torna a sera. Il treno fogna fa soste brevi in tutte le stazioni. Parole grasse e mani sul sedere delle ragazze che si fanno fare. Sono le otto ed è già buio fuori, domani all’alba il buio è come ieri. Le stesse case a ridosso dei binari, le stesse luci alle finestre, accese, le stesse storie, identiche le attese; domani sarà un giorno come ieri.
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FATA MORGANA (dedicata alla splendida Reggio Calabria)
E’ forse proprio qui che si consuma, davanti a questo mare che respira, su questa riva il senso della vita. Io l’ho cercato a lungo camminando lungo sentieri in boschi di silenzi, nelle radure dove si confonde il verdeggiare delle canne al vento e l’acqua quasi ferma dei canali. Io l’ho cercato nelle vie traverse delle città morenti e silenziose e lungo i marciapiedi delle donne che vendono l’amore. Io l’ho cercato ovunque immaginassi potessero nascondersi segreti. Ho rovistato tra le cianfrusaglie, negli angoli nascosti dei pensieri. Non una frase o una parola sola a dare un senso al vivere che vivo, inutile cercarlo dove credo. Non è mai là, nei luoghi dei pensieri, è in questo quadro che mi sta davanti, nel mare troppo azzurro dello Stretto dove si specchia una città lunare. Messina in lontananza è una lampara d’una catena innumere di lumi. E’ tutto qua l’arcano che si cerca, fuori di noi, lontano dai pensieri, nel grande gioco delle cose vere, in quello cui assistiamo, soltanto spettatori inebetiti di questa verità cui diamo il nome di questo lungomare d’illusioni. Fata Morgana, un sogno. Solo ieri.
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PORTA ROMANA
Com’era triste la città nell’alba e come, dai lampioni ancora accesi, spioveva sul bagnato delle strade una sottile polvere di luna. Finestre lampeggiavano di giallo sui viali della circonvallazione. Porta Romana bella di canzoni versava dai convogli pendolari turbe di gente ancora addormentata. Rigonfie quasi come stie di polli le filovie davanti alla stazione. Presto si sveglia e presto si addormenta questo ritaglio grigio di città- Di dietro a una parvenza disperata c’è gente che distilla con fatica da questa vita gocce di speranza. E’ sempre triste la città puttana ma nel chiarore pallido di luna una canzone sale dai binari, Porta Romana tu, Porta Romana
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MILANO VIA GHIBERTI
Milano, via Ghiberti. E’ già febbraio e il freddo della notte ha fatto bianchi di brina i tetti rossi delle case. Si accendono i camini e le caldaie che fumano di nebbia e di vapori. Il merlo ha già esplorato le grondaie e odori forti come fiati caldi raccontano di vita che riprende. Io sono come il fumo del comignolo che segna il cielo di volute gialle, spirali che si inseguono danzando inutilmente come tutto quello che non richiede alcuna spiegazione. Disegno fantasie nelle volute, edifico castelli inabitati, propongo strade che si perdono nel fondo di scene immaginarie. Poi mi sciolgo, nel grigio del mio cielo di città, a un alitare timido di vento tra queste case strette tra due strade. Milano, via Ghiberti, è già febbraio. Io sono come il fumo del comignolo che inventa per un cielo inospitale scenografie che durano un istante e poi si perdono come una voce che non ha parole.
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LA CIUMBIA
Milano degli anni sessanta. Mi torna alla mente, se penso, la piccola piazza deserta e quella latrina di latta dipinta di verde. Pareti ricurve,merletti di ferro e un certo tettuccio ad ombrello di stile un po’ liberty o quasi. E’ il punto obbligato d’incontro dei militari che a sera ritornano in via Mascheroni, in Caserma. Si pisciano litri di birra, si cerca qualcosa, se c’è. La Ciumbia si nota per via del rossetto che pare di fuoco su fili sottili di labbra. Nel buio si compra volendo un poco d’amore di bocca, un foglio da mille è anche troppo. La sera rimbomba di suoni, del cupo ronzio dei motori. Poi tutto si spegne di colpo, se tornano dentro i soldati. Rimane nell’aria soltanto lo scroscio dell’acqua che scorre in un pisciatoio di latta. La Ciumbia pian piano si tinge di nuovo la bocca.
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LES CHIMERES
Se dico Le Chimere, già trasalgo. Subisco l’incantesimo che viene dalle parole. E non importa il senso. Chimere vuole dire un altro mondo, promesse disattese, profondità insondate della mente, memorie cromosomiche irrisolte e pura suggestione d’altri altrove. “Les Chimeres”, un albergo senza stelle davanti al Porto Vecchio a Saint Tropez. Un piccolo edificio fatiscente col fascino inquietante dei fantasmi. Il mio fantasma vive qui da sempre, è qui che sono morto il sei novembre del millenovecentottantasette. Era una sera lugubre di pioggia, nessuno per la strada e scegliere il mio luogo per morire è stato così facile alla fine. Les Chimeres, cambiato è ormai da tempo il nome nella piccola insegna sulla strada ed il colore delle lampade del viale ma il mio fantasma rimane sempre qui, comunque vada.
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PIAZZA DUOMO 19
Ritorno a volte in quel palazzo al centro di Milano, in Piazza Duomo 19, al quinto piano. Un portoncino in legno a due battenti e serrature e pomoli d’ottone quasi a specchio. Tre camere su strada, un corridoio e la cucina grande. Ormai da tempo un gran silenzio dentro e l’aria vecchia e l’ombra di mia madre sull’acquaio. Non resta un altro segno sulle cose, né la sua voce nelle stanze vuote e notte, dopo notte e dopo notte si fanno bruni d’ossido e di morte i rilucenti pomoli d’ottone.
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DAMASCO BRUCIA
Acqua soltanto il mare che separa due spiagge uguali sulle opposte sponde; aria che corre il vento che ci sfiora e che solleva solo sabbia, in fondo. Pioggia che batte contro le persiane è come un pianto lungo che trabocca. Torce le mani e piano si dissangua quell’operaio che non ha lavoro e sanno di tristezza e d’abbandono le morti miserabili dei vecchi dimenticati al buio degli ospizi
e muoiono i bambini di Damasco,
la gola divorata dal veleno dei gas letali. In fondo pure questo non è che un modo antico di morire. Non c’è stupore e non c’è novità, quello che accade è come sempre uguale. Fatico un po’ a capire se ci penso e poi mi dico: un giorno dopo l’altro una ferita; ma è proprio tutta qui la nostra vita?
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IL FIORE GIALLO
Dormivo quieto e non avevo sogni a risvegliarmi, poi, sul mattino, un grido e dentro una voragine di rabbia quell’urlo di una donna, come un taglio. So quasi tutto, so che le ferite guariscono col tempo e la fatica. Una cosa soltanto non guarisce: il male dentro, il male e la coscienza. La donna sa che cambierà ma poco. Prometterà che nulla sarà uguale, che sarà buono e mite e che le mani saprà tenere al posto dove deve. Violento e prepotente è solo un uomo e a volte una voragine di niente. La donna invece è il prato dove cresce ad ogni primavera un fiore giallo.
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MORIRE A NATALE
Ho sognato una bimba sognare; alla porta del cuore ho avvertito il suo sogno bussare. Non chiedeva un giocattolo nuovo né un pupazzo di neve. Nel suo letto di piaghe aspettava, con la musica dolce dei canti della gente felice, il tinnio dei sonagli alle slitte di Babbo Natale. L’ha aspettato per giorni e per ore, per un’ultima notte stanotte. Quando il canto s’è udito ha potuto socchiudere gli occhi. Sul cuscino ha lasciato, trattenuto sul bordo di ciglia, un sorriso e uno sguardo dorato. Si combattono al mondo battaglie e si sparge del sangue innocente e si perde una guerra ogni volta, sul lettino di un angelo biondo che si lascia morire per niente.
(dedica a Fernando Bandini, poeta, morto il giorno di Natale 2013)
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DOVE CROLLANO I MURI
Visitammo deserti. Le rovine sepolte di città sconosciute che il tempo ha scordato di scrivere dentro alle carte segrete. La memoria mi assista, ricordo che con orbite vuote ho guardato il cadere dei sogni, nel vento. Sono entrato nei templi ed ho aperto le porte che la notte ha socchiuso. Prudente ho girato per strade deserte e ho sorriso a fantasmi. Porterò come dono agli altari la mia anima inquieta che si ferma a pensare nei luoghi dove crollano i muri di città che la sabbia sommerge. Siamo qui che aspettiamo dagli anni che ritornino verdi tutti i prati all’intorno e che nasca dal vento la città che sperammo da sempre. Visitiamo deserti per cercare città sconosciute dove crollino i muri del tempo.
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A UN’AFRICA VICINA
Così violento il vento del deserto che stanotte ha soffiato su Milano e seminato sabbia, come fuoco, sulle macchine in sosta e i marciapiedi. Quell’Africa lontana è più vicina ed ha i colori del bronzo sulla pelle delle donne e il nero d’occhi accesi di bambini. Non siamo soli più con quel che siamo, villagi inespugnabili a un nemico che immaginiamo. Ora si sa che respiriamo insieme gli identici profumi nell’aria che ci giunge da lontano. La sabbia rossa, come in sospensione, è un’Africa che giunge come un dono nell’alito del vento che ci sfiora al modo del respiro di qualcuno che dolcemente e inconsciamente amiamo. Il vento espugna torri di castelli, visita chiese e non conosce muri. Il vento è il fiato caldo che ci giunge da un’Africa che abbiamo dentro il cuore, pianeta perso dentro mille offese.
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IN TANTI PORTI ED IN NESSUNO
Andiamo via di qui. S’è fatto tardi ed io non voglio stare dove stanno le donne che patiscono in silenzio.
Io posso avere male, disperarmi però voglio gridare, dare fiato al mio tormento e che nessuno dica che sono pazza e non so stare al gioco. Passato è il tempo del silenzio, quando tu mi ferivi ed io tacevo inerme e mi dicevi quello che si dice alle femmine isteriche che piangono.
Le tue promesse, come canne al vento, hanno frusciato per le mille notti, poi, come l’acqua, sono svaporate in nuvole leggere dentro l’aria.
So già che dovrò vivere da sola, che il sogno di tenerti all’infinito è già finito. Tu non sai restare. Non ti trattiene il bene che c’è stato né le promesse e il pianto che mi scioglie. Neppure un figlio, la magia d’amore, il segno di un legame indissolubile, ti obbliga a restare. Tu rinneghi qualsiasi cosa ti trattenga a terra. Sciogli ogni ormeggio e salpi ad ogni sera da questo approdo verso ignoti mari.
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MANI DI CERA (a mia madre)
Un giorno, un mese e un altro po’ di vita hai speso a ricamare quella trina eppure tutto il tempo e la fatica dispare mollemente nella trama. Le mani troppo a lungo hai logorato alla fontana e consumato gli occhi sulle righe di pagine sgualcite al debole chiarore di candela. Avrai mani di cera, finalmente, le stesse mani di chi dorme a lungo e ci dirai: “ se ormai non servo a niente, non voglio più svegliarmi. E vi saluto.”
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VOLARE VIA
Qui dove il giorno è stato prepotente, la luce cede piano e si confonde con l’avventura di una notte nuova che dolce come l’acqua si propaga e allaga questa valle d’ombre opache. Questo era il mondo ed unica la scelta.
Figli da fare, case da abitare e solo due pensieri da pensare. Fu quella sera, innanzi a un fuoco acceso, la voce rotta: “vado via, mi basta la vita già vissuta in questa casa. Mi ha scelto un uomo e prendo la sua mano.”
Si sciolgono in un attimo catene, si sceglie di non scegliere e di andare. Si dice sia l’amore ma forse è solo voglia di fuggire, d’essere donna, fare figli e fare, in una casa nuova un nuovo altare. E’ di una donna la coscienza ardita che sceglie di concedersi il respiro, la sola cosa al mondo che possiede.
Qui, dove il giorno è stato prepotente, è nata l’avventura di mia madre e la sua storia è come mille, uguale. Si dice che sia stato per l’amore ma forse è stata voglia di volare.
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GLI ADDII
Più forte del dolore la paura; paura di provare altro dolore, così ho taciuto a lungo senza dirlo ed è accaduto troppo spesso allora così ogni volta ho scelto di fuggire. Mia “dulcissima mater” ora ho capito che si diventa un uomo solo quando, quando si impara a dire il primo addio. E’ stato così dolce averti accanto per tutto il tempo di una vita ed oltre ed ora è così triste la certezza che non ci incontreremo, per l’eterno. La mia sola speranza d’infinito è in questo far durare più che posso il nostro dirci lungamente addio.
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MIO PADRE INVECE
Inquieta fantasia delle salite e dopo invece, discese mozzafiato senza freni, su spire di serpente arrotolate per strade ardite. Sorride ancora da una vecchia foto, la mano sul manubrio e sulla maglia il nome di battaglia. I sogni non si appagano vivendo ma solo dopo. Inseguirai le ruote palmerate di quelli in fuga, avanti tre tornanti, per prenderne la scia. Sul lungo rettifilo dell’arrivo, l’ultimo scatto. E via!
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L’ESTATE E’ UNA STAGIONE UN PO’ CRUDELE
E’ stato quasi come se la notte si fosse fatta bianca di lampeggi, come se l’aria, a un brivido di foglie, si fosse accesa di bagliori verdi. L’estate che finisce ha riti assurdi, burrasche in alto mare e mareggiate che vengono a morire alla battigia, groppi di vento sopra le lagune e nebbia di salsedine nell’aria. Fragore di una scena che si muta ora per ora e toni di tragedia. Non muore mai in silenzio, se ha ballato, l’estate ardente nella sua calura. Non muoiono le storie di prodigi e d’avventure quando viene sera. Rivivono al mattino, insieme al sole, miracoli di sogni e d’emozioni. Non rivivrò con te la meraviglia del nostro stare insieme, silenziosi, ad ascoltare il canto degli uccelli, il brivido del vento tra i cespugli, la musica lontana delle stelle. Un’altra estate tornerà tra breve con altri tuoni e lampi e nubifragi ma il mio coraggio e la mia voglia folle si va spegnendo come fiamma al vento. Vado cercando spazi silenziosi, angoli bui dove stare quieto. L’estate è una stagione un po’ crudele. Ormai più non resisto al sole pieno e cercherò, in un angolo segreto, l’ombra gentile che si addice ai vecchi.
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FOULARD DI GUCCI
Mi guardi, mi vedi poi strepiti forte, più forte d’un urlo dal fondo mi gridi una frase d’amore. Distesa di neve che brilla di stelle s’accende d’un tratto, alla luna. Un sogno non mio; dalla tolda d’un bianco vascello che affonda mi dici parole di seta sottile,
foulard delicati di Gucci,
cavalli dipinti e staffe dorate, tappeti di foglie d’autunno. Non voglio raggiungerti, tanto se io m’avvicino, lo spazio si allarga di colpo e s’aprono sotto paesaggi di un’anta d’armadio. La radica in noce disegna abissi profondi e cime di monti, voragini dove si perde la mente ed il cuore. Poi basta che piano mi tocchi perché mi risvegli di colpo. Se guardo d’intorno il sogno ha lasciato soltanto le sete di Gucci e quell’anta d’armadio che come uno specchio riflette me stesso, disperso, che mentre ti cerco, ti perdo.
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CI TOCCA
Non piangere cara, ci tocca. La vita di un figlio ci sfiora soltanto e non lascia che un’ombra di se. Se non basta avremo, per gli occhi, la foto che ride, il pupazzo di neve, quel giorno d’inverno, ma dove? Il posto in cucina, la sedia ch’è vuota da tempo aspetta che venga Natale. Non resta che il poco che serve e arriva ch’è stanco e svogliato. Non parla e se dice, capire è difficile a volte. Contesta, protesta e si inquieta con me, per le cose che dico. Non piangere cara, ci tocca; ai vecchi non resta che farsi da parte. Le nostre parole non hanno più ascolto, la voce che occorre non trova il coraggio e piano sprofonda così che alla fine il silenzio divora l’estrema parola che affiora alla bocca. Non piangere cara, ci tocca.
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UN ABITO A FIORI DI CAMPO
Non era rimasto nell’aria che un segno, la piccola traccia che lascia la mano che piano ti sfiora nell’attimo prima che tu non sparisca giù, in fondo alla strada. Ti ho vista arrivare, improvvisa, la snella figura stagliarsi danzando nel debole raggio di sole che spiove tra i rami del viale. Sei parsa volare nel piccolo spazio tra noi, che separa la viva farfalla che sei da chi sono, un debole stelo piegato dal vento leggero di maggio. Vestivi la veste leggera di tutte le donne del mondo nei giorni di primavera. Un abito a fiori minuscoli e vari così che abbracciarti pareva tuffarsi nel sogno in un prato.
Mi sono svegliato di colpo all’urlo di un’autoambulanza che corre furiosa per strada. C’è stato qualcosa all’incrocio; per terra, in un lago di sangue, qualcuno travolto da un’auto pirata. Lo vedo dall’alto, il piccolo sacco di stracci, quell’abito a fiori di campo, venuto a morire stamani sull’uscio di casa.
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L’ARCHETIPO DI CASA
Quanto più vivo e vedo più si fa grande il vuoto dentro. Facevo foto un tempo creandomi un archivio, per quando sarò vecchio, mi dicevo. Ricordo poco ormai; difetto di memoria ma non credo, credo piuttosto a un modo originale di scegliere col cuore quello che conta e quello che non vale. Se dico “casa” mi tornano alla mente le case che ho abitate e tutte quelle ormai dimenticate. Si radica di dentro come un male la prima casa in cui ci siamo accorti di abitare. La casa rossa sulla ferrovia, una piccola porta per entrare e due finestre a lato, il fumo di un comignolo che sale. Un cielo azzurro ed una nuvola soltanto e un sole tondo nell’angolo su in alto. Ho seppellito dentro quella casa l’archetipo di tutte le dimore, così se cerco la mia idea di casa devo scavare al fondo del mio vuoto, dentro la tomba della mia memoria. A quella casa non ho fatto foto.
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MI TIENE VIVO L’INCERTEZZA
E’ passato così, senza rumore il tempo della vita che davvero è stato come un lampo. Mi rammento d’un’infanzia felice e inconsapevole e d’altre età sprecate inutilmente.
Io l’ho buttato il tempo della mia desolata giovinezza, tutto il tormento dell’insicurezza per ciò che sono e sono stato. Ho avuto un corpo fragile e malato, ho temuto di tutto e ho sperperato giorni su giorni a compatirmi e a dirmi che non avrei potuto stare al gioco.
Stando di lato, il mondo non si cura di te che non ti adatti alle battaglie. Ti isoli e ti culli in fantasie d’estraneità dorata e quanto più ti affondi nel silenzio più godi del piacere d’esser solo.
Coltivi dentro il seme di un fantasma inadeguato a vivere nel mondo.
Sono approdato a questa spiaggia estrema nudo e sfiancato e senza alcun bagaglio. Il retroterra è un campo di battaglia, ad ogni cippo solo una sconfitta. Non ho memorie, punti di partenza, quello che posso è cominciare adesso.
Nel mio futuro un’altra giovinezza, un’altra storia e tanti nuovi approdi. Mi tiene vivo, in fondo l’incertezza, la mia precarietà, la voglia folle d’altre bandiere da affidare al vento, di nuovi porti ed altri approdi certi.
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SEGNI
Io leggo segni sempre e ovunque vada leggo la traccia piccola che c’è del tuo passaggio lieve in questa casa. Un segno appena, la tua tazza bianca col bordo di celeste e sul cuscino l’impronta ancora tiepida di te. Un segno nei sentieri del giardino, ciocche di fiori dentro i vasi appesi nella pergola accanto alla fontana. Un segno dentro me che mi affatico a trattenere il filo di memoria che mi tiene agganciato alla mia vita.
Ricordo segni sulle rocce rosse dei dirupi scoscesi all’Esterel. Un segno piccolissimo su un sasso tracciato con un guscio di conchiglia per ritrovare, un giorno se si passa, il luogo di un picnic tra le lavande. Sul candido sepolcro di Chagall, ho abbandonato un sasso levigato e nero come un abito di scena per la casa in collina di Gerard.
Sassi su sassi ed altri sassi ancora, segni su segni in cumuli infiniti, a erigere muraglie di difesa, a fare case, a lastricare strade di discesa. E sopra i muri una parola incisa per dire quanto valgano i pensieri.
Amo i sentieri dove è già passato il cacciatore nelle aurore insonni ed amo i porti e tutti quanti i mari navigati. Amo le croci al vertice dei colli ed agli incroci certe santelle povere di fiori. Amo te che mi chiami da lontano col segno della mano e lascio tracce e inseguo tutti i segni di chi mi piace e che mi incrocia a caso, di quelli che mi amano e che amo.
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TRA ME E L’INFINITO
E’ un giorno di vento quest’oggi e già dal mattino si annuncia la bella ventata che spazza le candide nubi di panna. Il cielo diventa più azzurro dei giorni di maggio, dei tiepidi giorni che tutto si fa trasparente cristallo. I prati, davanti alla casa, si increspano all’aria al pari di un mare sfiorato da un volo di rondini, a raso. La mamma mi ha fatto, con carta crespata e stecche di canna e colla di latte e farina, un cervo volante più bello di un sogno a colori. Cerchiamo nei prati ondulati il punto più alto, il sommo di un colle da poco per dare lo slancio che occorre. Ondeggia nell’aria poi cade e questo una volta e poi mille. Non cullo illusioni, so già da gran tempo che quello che spero non capita mai. Mi accontento. Per tutta una vita ho sperato che tanti aquiloni potessero un giorno librarsi nel cielo dei sogni. Nessun aquilone ha volato per più di un minuto così tra le mani mi resta nient’altro che il capo di un filo. Quel filo tra me e l’infinito che inizia e finisce in un prato.
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PORTERO’ CON ME
Li porterò con me, nelle pupille, i palpiti di stelle, lo scintillio delle fontane al sole e i suoni della musica degli astri e i canti delle donne nelle sere. Non si disperderà nell’universo la somma inenarrabile di cose vedute e amate. Io, come un recipiente, un reliquiario sacro a custodirle. Tu dentro me, con la tua luce bella, con gli occhi che saettano di sguardi e con le mani lievi di carezze.
E poi se tutto o quasi tutto si perdesse.
La luce azzurra sopra la laguna, il tremolare incerto tra le canne del sole che si affonda all’orizzonte. Se si perdesse il bene di questa sera calda, il desiderio di fermare il giorno, fino ad un’ora tarda, perché continui il gioco di questa luce nelle tue pupille. Se tutto si perdesse e andasse via il ricordo di rondini impazzite tra le case, se mi morisse dentro l’ansia di avere e cogliere nell’aria la verità di Dio. Se si perdesse e se davvero tutto si perdesse,
vorrei finire ma finire adesso.
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POLVERE SOTTILE
E si va via da questa superficie come un segno di gesso alla lavagna. Un gesto ci cancella in un istante, resta di noi una polvere sottile. Perché affannarsi allora a farci male, a roderci di rabbia, a tormentarci lasciandoci alle spalle anche l’amore. Trattieni le parole che conosci e non lasciarti andare. Parlale piano, dille che ti occorre ancora un po’ di tempo per pensare. Se non sorride mentre tu le parli, è troppo tardi ed è lontana ormai. Non trattenerla allora che un istante, abbi il coraggio di lasciarla andare.
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IL BATTITO DEL CUORE
Ho freddo dentro, scaldo le mani al fuoco del camino e illumino la pagina che ho aperto al rosso della brace. Il gatto dorme acciambellato sul cuscino. Tace la pendola se osservo il suo oscillare. Il tempo che trascorre nella pace illude che appartenga alla mia carne il po' di eternità di questa vita. Se il cuore batte come rallentato è bava d'esistenza che s'attarda soltanto per illuderci che il tempo duri per sempre se si sta in silenzio. La vita vera invece si consuma col battito del cuore che galoppa, con la passione che ti brucia in faccia. Ed ogni azzardo che si fa per gioco ed ogni sguardo che rivolgi a un altro lasciano segni come di ferite, cicatrici di vita , un medagliere da esibire sul petto, il testimone di aver patito tutto quel che occorre e aver vissuto insieme tante vite.
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IL TARLO E LA MEMORIA
Sarà così per lungo tempo ancora che ti verrò a cercare come fossi ancora lì, ad accogliermi sull’uscio della tua casa. Attendere qualcuno che non viene lascia sul cuore come una ferita; non lo sapevo o forse non volevo dirmelo allora. Lo capisco invece adesso che pian piano arrivo al punto di non ritorno. Non c’è un modo solo di riparare al male che ci opprime. Il tarlo che ci rode avrà il suo tempo e solo la memoria che si incrina ci toglierà, col bene del ricordo, il male che ci fa l’avere invece dentro di noi la pena del capire. Per lungo tempo, poi con la memoria si cicatrizza il cuore e la ferita, svaporano nel nulla i sentimenti, si attenua la coscienza della vita.
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ANCORA VENTO
Vento di primavera, così improvviso che arrivi e mi porti un soffio di paradiso. Vento con il profumo di gelsomino, che mi sollevi in cielo come un bambino. Vento come farfalla che si gingilla, e si fa bella al bordo di una corolla. Vento che sento forte e mi brucia gli occhi, vento che ti balocchi con mille foglie che strappi al ramo in vortice e poi scompigli. Vento che ti conosco come un fratello dolce rabbrividisci sulla mia pelle. Portami in dono il sogno che mi somiglia, come il messaggio chiuso nella bottiglia. Vento di tutti i venti di primavera fammi sperare che oggi non venga sera.
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COME GIUNCHI
Rivedo in questa donna che ho vicina quella sua giovinezza rigogliosa. Le sbocciavano i seni come fiori che cercavano il cielo e il ventre esiguo come un’anfora cava profumava dei profumi dei prati sotto il sole.
Il tempo che ci piega come giunchi mi toglie solo ciò che non ho avuto e ruba la ricchezza, dove c’è. Tu depredata, tu non sei più tu. La tua bellezza andata mi dice che è così che si finisce.
Noi naufraghi approdati alla battigia di quest’ultimo scampolo di vita, ci sorridiamo in questo parco di città dai lati opposti dell’identica panchina.
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PAPAVERI
Ti porterò un papavero rovente di rosso fiamma e i petali di vento se saprò trattenerli almeno il tempo che occorre ad arrivare fino a casa.
L’ho colto adesso al bordo della strada e prima che la polvere lo copra di un velo sottilissimo di bianco.
I papaveri ridono di nulla, come le tube in un concerto grosso, nei campi di frumento sventagliati dal vento della notte.
Solitario il papavero che ho colto è quel sorriso che non ho per te. Sono come una pietra del sentiero che piange d’acqua solo quando piove e poi si asciuga lentamente al sole. Rido con gli occhi, a volte al tuo pensiero ma rido sempre quando sono solo.
Ti porterò il papavero rovente del riso rosso che vorrei per te. Lo stringo tra le dita perché trema dell’aria intorno che lo sfiora a tratti. Cammino piano, sono quasi a casa. A un angolo di strada una folata e i petali si perdono lontano. Il mio sorriso è andato e nella mano l’esiguo stelo e un cuore quasi nero.
Non ho altro spazio e non so più che fare eppure io ci devo riprovare. Lo cercherò il sorriso da raccogliere al bordo polveroso di una strada di un fiore uguale. Un papavero rosso come fuoco.
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PREGARE A VOLTE
Pregare a volte è solo una metafora. Come la donna fa, quando si leva; spalanca le finestre d’ogni stanza, crede che l’aria fuori sia più pura. Accende il fuoco sotto al bricco d’acqua poi rigoverna e con la stessa cura del giorno prima, stende sui fili tesi del balcone i panni in fila, stira ogni cosa ed ordina precisa nei piani giusti della cassettiera. Prepara cena e rigoverna ancora poi va a dormire prima. Io mi addormento innanzi alla tv affaticato da un paio d’ore spese sul pc. E siamo qui, noi uomini che siamo ognuno col suo carico di se, di ma e perché. La donna no, perché sa già quel che si può o non può perché così com’è lei è una preghiera vera, fatta di quello che si fa per una vita intera.
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IO SONO LA GRAMIGNA TRA I BINARI (da una suggestione di Pessoa)
L’amore è come un bel ventaglio. Aperto sarebbe ben più bello certamente. Più bello ancora invece è non aprirlo per regalarsi l’intimo piacere di torturarsi il cuore a immaginarlo. Sono così, che prendo ciò che viene, e se non viene penso che sia meglio restare a coltivare il dispiacere. Amo i castighi e specie per le colpe non commesse. Porto un cilicio in cuore e mi compiaccio del mio patire, come fossi un altro. Patisco della vita gli anni trascorsi in tutti i calendari. Io sono la gramigna tra i binari.
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NON C’E’ UN’ETA’
Come ciascuno piango, a volte, la gioventù perduta e piango insieme per chi piange d’amore. Mi consola il non dover patire, per età, pene del cuore. Mi dico quindi d’essere al riparo da tutto quello che mi ha resa amara la giovinezza. Mento a me stesso, mi lascio andare all’euforia del vuoto, poi se ci penso, mi accorgo che si cambia ma di poco. Non c’è barriera alcuna di difesa, non c’è un’età che lasci indenne il cuore e si ritorna a piangere d’amore fino all’istante prima che finisca. E’ in tutto questo il senso della vita.
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IL SOGNO NEL SOGNO (da una suggestione di Pessoa)
Io sono il mio sogno di me. Non esisto e il tempo che passa è ciò ch’è trascorso, la cosa consunta che adesso non c’è. In questo momento io so che non sono ed anche quel tempo che ho visto è l’ora trascorsa che adesso non ho. Se sono in un luogo e ignoro chi sono è come se il tempo non fosse ed io stesso non fossi nient’altro che un sogno nel sogno.
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LAGER
Gli altissimi pioppi, alla curva, proiettano bianchi cavalli nel cerchio lucente di luna. Cristalli di neve riflettono un cielo di vette, sequenze di candide gonne che danzano al vento notturno. Un’auto che passa, coi fari abbaglianti, sventaglia di luce le sagome scure degli alberi ai lati. I reticolati, corone di spine per tanti calvari raccontano storie di treni diretti in Germania, nei carri bestiame la carne che piange. Sui lager lontani è sospesa la stessa valigia di luna e reticolati malati di gelo e cristalli rappresi e mani aggrappate a ferirsi. Il bianco di neve si tinge di sangue. La luna lucente si ammanta di macchie roventi. Nel freddo d’inverno trascorre nell’aria la mandria al galoppo. Nessuno si accorge di nulla, non s’odono gridi, la morte che uccide sa farlo anche senza rumore. La luna riflette distese di neve, criniere di vento e il gelo rapprende i silenzi.
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I N D I C E
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE L’INCAPACITA’ DELLA PAROLA FOTOROMANZO E VICEVERSA LE POSSIBILI INTESE EPANALESSI LA TRISTE ALLEGRIA DI ALBINONI UN’OMBRA CHE MI SEGUA L’INSIGNIFICANZA FLUSSO DI COSCIENZA COME IL SASSO SULL’ACQUA CIELITUDINE NESSUN SEGNO, NIENTE IL PRIMO TRENO A MIA INSAPUTA NESSUNO CI APPARTIENE COSI’ E’ MORIRE SAREBBE PIU’ FACILE TUTTO VORREI TU MI VEDESSI LA STRADA DEL NIENTE ASPETTANDO LA SENTENZA IL SOGNO DI VOLARE COME HO TROVATO LASCERO’ A ROGOREDO FATA MORGANA (a Reggio Calabria) PORTA ROMANA MILANO VIA GHIBERTI LA CIUMBIA LES CHIMERES PIAZZA DUOMO DAMASCO BRUCIA IL FIORE GIALLO MORIRE A NATALE DOVE CROLLANO I MURI A UN’AFRICA VICINA IN TANTI PORTI ED IN NESSUNO MANI DI CERA VOLARE VIA GLI ADDII A MIO PADRE L’ESTATE E’ UNA STAGIONE UN PO’ CRUDELE FOULARD DI GUCCI CI TOCCA UN ABITO A FIORI DI CAMPO L’ARCHETIPO DI CASA MI TIENE VIVO L’INCERTEZZA SEGNI
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TRA ME E L’INFINITO PORTERO’ CON ME POLVERE SOTTILE IL BATTITO DEL CUORE IL TARLO E LA MEMORIA ANCORA VENTO COME GIUNCHI PAPAVERI PREGARE A VOLTE IO SONO LA GRAMIGNA TRA I BINARI NON C’E’ UN’ETA’ IL SOGNO NEL SOGNO LAGER
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